Grano o zizzania? Lasciamo giudicare Dio
La riflessione sapienziale con la quale si apre la liturgia della parola di questa domenica (Sap 12, 13- 19) è particolarmente interessante: emerge infatti un problema di comprensione dell’azione di Dio nel mondo che diviene un capo d’accusa dal quale dovrebbe difendersi, ovvero quello di essere un giudice ingiusto. Di primo acchito potrebbero venirci alla mente molti episodi, nella storia biblica, che mettono in luce la perplessità del credente di fronte all’azione, o all’inazione, di Dio e che i salmi di lamentazione hanno spesso espresso: «Fino a quando, Signore, starai a guardare?» (Sal 34,17).
Si tratta del problema che accompagna da sempre l’uomo di fronte ai grandi drammi dell’esistenza e che la Bibbia non censura. In realtà il brano di oggi, se letto nel contesto del capitolo a cui appartiene, dice qualcosa di diverso. Non c’è una lamentela nei confronti di Dio che non ha aiutato il suo popolo al momento opportuno, anzi viene elencata una serie di azioni prodigiose, a partire dall’esodo con la liberazione dalla schiavitù. Piuttosto viene vista con scandalo la mitezza di Dio nel punire gli avversari, la punizione graduale in vista della conversione piuttosto che lo sterminio puro e semplice. Ricorda da vicino la situazione della parabola degli operai nella vigna, dove i primi, che pur hanno ricevuto il loro dovuto, non sopportano la liberalità del padrone con gli ultimi arrivati (cf. Mt 20,12). Questo, a volte, scandalizza più di un danno ricevuto, il fatto che Dio sovverta quelli che sono ritenuti principi assoluti e inderogabili.
Tuttora si trova qualcuno che preferisce buttare cibo o vestiario piuttosto che donarli a qualcuno, «per principio». In realtà di principi Dio ne ha praticamente uno solo, ovvero la vita dell’uomo, di ogni uomo. Per questo, come vediamo nel brano evangelico di oggi (Mt 13, 24-43), ogni tentativo di semplificare la realtà coi nostri filtri: il filtro buoni-cattivi (il grano e la zizzania), quello piccolo-grande (il seme di senapa), quello pochi-tanti (il lievito) è fondamentalmente tempo sprecato. Ovvero, agli occhi di Dio, non tutti quelli che ci sembrano adesso buoni o cattivi lo sono davvero, né quello che ci sembra piccolo lo è davvero, e neppure essere in tanti o pochi è importante quando si fa quel che si deve fare. Ma non sono i nostri piani che stabiliscono quel che si deve fare bensì la dinamica interna del regno, lo Spirito che ci è stato dato (cf. Rm 8, 26-27; 2a lettura ). Se guardiamo a tutti questi brani è sempre presente un clima da cantiere aperto, da lavori in corso.
Questo contrasta ampiamente con l’ansia di sicurezza e regolamentazione che assilla il nostro tempo. Il rifiuto del dibattito, l’incapacità di confronto che imperversa un po’ ovunque, dai salotti televisivi all’arena politica, il tentativo di imporre schemi preconfezionati e opposti a seconda di chi sale alla ribalta nella gestione della cosa pubblica, fa cogliere tutta la lontananza dai ritmi della natura che la parola di oggi ci propone come caratteristica del regno: devo solo attendere che il chicco germogli in albero, che il lievito svolga la sua azione che non posso «gonfiare» in alcun modo (se lievito deve essere), imparare la sapienza dell’agricoltore o del fornaio, impastare con delicatezza la fragile realtà che è materia del regno, senza l’ansia dei mezzi spicci e delle soluzioni rapide, o seguire la «pancia» della gente che detta le sue regole. Ma se inizio tacciando Dio stesso di scarsa fermezza per non usare la ruspa nei confronti del mondo peccatore (del quale peraltro continuo a far parte) dove penso di arrivare?
*Cappellano del carcere di Prato