Siamo terreno adatto alla fecondità della Parola?
La liturgia di questa domenica ci propone, nel brano evangelico (Mt 13, 1-23), la lettura della celebre parabola del seminatore, che porta con sé la vivida descrizione di una scena semplice ed efficace per far cogliere il dinamismo e la forza della parola di Dio che si «impasta» con la terra, la imbeve e la fa fruttificare, quella terra che altri non è che l’essere umano con ciò che lo circonda, destinatario e partner di un dialogo che nasce da Dio, sorgente di ogni vita.
Da questo punto di vista la parabola è abbastanza chiara e comprensibile, inoltre vi è anche la spiegazione che Cristo stesso dà ai discepoli ma non tutto è così lineare. L’apparente semplicità di questo insegnamento, il riferimento a un mondo agricolo con le sue pratiche conosciutissimo al tempo di Cristo e non solo, quello che noi possiamo definire un esempio alla portata di tutti, provoca invece la domanda dei discepoli: «perché parli in parabole?».
Dov’è, potremmo dire noi, il problema? Quale esemplificazione più chiara di questa? Invece Cristo prende sul serio questa domanda e rincara la dose citando il profeta: «perché pur vedendo non vedono» (secondo Marco, addirittura, che «non vedano»). Il problema sta allora da un’altra parte. Forse nel nostro essere terreni dallo scarso valore, e in quel caso o cerchiamo di «concimarci» in qualche modo per migliorare la consistenza o altrimenti sono guai. Ma forse non è neppure questo, perché in tutti i «terreni» (eccezion fatta forse per il primo, ma lì il problema è principalmente l’intervento degli i uccelli del cielo) non c’è stato un ostacolo alla ricezione della parola, anzi addirittura ha messo radici, anche se poi è seccata o è stata soffocata.
Tutto si è giocato piuttosto nel rapporto con questa parola, con le forze che essa ha messo in moto, coi sentimenti, i progetti, le difficoltà e gli scandali. Ancora una volta il problema non è semplicemente essere un buon terreno, ma un terreno adatto a «quella» semente. Di più: lasciare che sia la semente a trasformare il terreno che la accoglie (cf. Is 55, 10-11; 1a lettura). Il giovane ricco era sicuramente un terreno buono ma non adatto a quell’annuncio che richiedeva un riassestamento totale (cf. Mt 19, 16-22). È singolare notare che fra quelli che «vedono e non comprendono» ci sono anche quelli che «avrebbero voluto vedere e non hanno visto», profeti e giusti che non per colpa loro ma per lo sfalsamento dei tempi non sono entrati in questa inaudita dialettica con Dio, la Parola donata che non è semplicemente la Bibbia e la Legge (che i profeti avrebbero tranquillamente accolto), ma la parola fatta carne, il Cristo di Dio. Del resto anche per loro, come già per il Battista che pur essendo il più grande è il più piccolo nel Regno (cf. Mt 11,11), occorre sottolineare la novità assoluta della Buona Notizia.
Anche nella seconda lettura di oggi (Rm 8, 18-23) ritroviamo un annuncio simile: occorre una certa fatica per entrare in una dimensione nuova e diversa, simile al parto di un bimbo, che ci chiede di riconsiderare tutti nostri schemi, le interpretazioni, gli impianti della nostra esistenza; fatica che per certi versi è assolutamente naturale, perché esprime una vitalità presente nel grembo del mondo: Cristo, che è tutto in tutti (cf. Col 3,11), di fronte al quale terreni «teoricamente» buoni e «teoricamente» cattivi, sono chiamati a riconoscersi bisognosi di sviluppare una sintonia nuova e profonda con questa fecondità della Parola che viene.
*Cappellano del carcere di Prato