Quell’umano stupore di fronte all’Ascensione
La liturgia della parola di questa domenica, solennità dell’Ascensione del Signore, si apre come sempre con il brano degli Atti degli Apostoli (At 1, 1-11) che conserva il colore forte di alcune manifestazioni del divino o dello stesso Gesù nella sua Trasfigurazione (cf. Mc 9,2) ma non c’è l’elemento della paura, del sentirsi schiacciati dalla potenza che si manifesta, quanto piuttosto un sentimento di stupore, di non saper bene che passi fare. È come se la Chiesa avesse cominciato a prendere confidenza con la vita risorta, ma qui c’è un nuovo passaggio, che lascia i discepoli alquanto basiti. Ed è così umano l’intervento dei due uomini che «strattonano» i discepoli imbambolati e chiudono lo «spettacolo» con una sorta di «that’s all folks!», lo «è tutto, gente!» delle vecchie recite delle filodrammatiche di provincia. Questo non per mancare di rispetto al grande affresco dell’Ascensione di Cristo, ma per sottolineare come anche in questo contesto di gloria ritorni l’elemento del quotidiano, del cammino, dell’umana fatica di ripartire per una nuova tappa, stavolta in attesa e poi in compagnia dello Spirito, che certo non è un estraneo ma richiederà comunque di rimettersi in gioco, ricercare nuove sintonie e sperimentare strade ancora non battute.
E’ un elemento che troviamo anche nella narrazione evangelica di Matteo (Mt 28, 16-20). In questo brano c’è un versetto di non facile interpretazione, ovvero il riferimento al fatto che i discepoli «però dubitarono»(v.17). Qualche altra traduzione recita: «si prostrarono anche quelli che avevano dubitato», oppure « si prostrarono ma alcuni ebbero dei dubbi». E’ vero che probabilmente Matteo sintetizza con queste brevi parole tutte le difficoltà sorte negli incontri con il Risorto che non sono riportate in questo vangelo (a differenza di Luca).
In questo caso l’ascensione avrebbe chiarificato in maniera definitiva ogni dubbio precedente. Ma la sensazione che in quel momento solenne, anche nella comunità radunata nell’adorazione al Cristo Signore del cosmo e della storia , sia necessario fare i conti con un dubbio che permane nella vita dei credenti, è forte. Del resto il compito di testimoniare il Cristo, la sua signoria e la sua presenza in mezzo a noi fino alla fine del mondo, dovrà scontrarsi sempre con la domanda che nasce da ogni tragedia e catastrofe umana: «dov’è il tuo Dio?» (Sal 41, 4). E’ una domanda che non conosce stanchezza, emerge nelle vicende più private, come nei drammi planetari, e si ricicla continuamente perché anche i momenti in cui vi sono sospiri di sollievo per un pericolo scampato, per una speranza che nasce, per testimoni che portano nel mondo l’unzione del Santo, sono messi in scacco da una storia che non si ferma, momenti che, come l’antica manna, non possono essere serbati per il domani (cf. Es 16,20).
La Chiesa deve accettare questa domanda, riconoscerla come grido dell’umanità, non dei nemici, dei miscredenti, ma degli uomini, e quindi come propria. «Dov’è il tuo Dio?» può essere un grido di bestemmia ma anche il grido dell’amore: «ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato» (Ct 3,1-4), è l’ansia della Maddalena che non sa dove hanno posto il suo Signore (cf.Gv 20,13), e solo a prezzo di questo non-sapere diventa attenta alla voce del custode che la chiama e si fa riconoscere come il Risorto. L’ascensione non ci chiede innanzitutto di strombazzare a destra e a manca le nostre certezze ma di entrare nel deserto vuoto delle domande gridate al cielo per scoprire con stupore, come la Maddalena, che il Risorto ci ha già preceduto là.
*Cappellano del carcere di Prato