Il dono dello Spirito: noi sappiamo vederlo?
Il brano evangelico di questa domenica (Gv 14, 15-21) può dare la sensazione di una certa astrattezza: è tutto un intreccio di temi quali l’amore, l’osservanza del comandamento, il dono del Paraclito, la conoscenza del Padre e del Figlio nei rapporti fra loro e con i discepoli, che parrebbe richiedere un tipo di conoscenza non alla portata di tutti. Potremmo forse sentirci tagliati fuori, distanti, noi stessi parte di quel mondo che «non vede e non conosce» (v.17) e che non può fare esperienza del dono dello Spirito, oppure limitarsi ad accettarne il contenuto dottrinale, una formula teologica confinata nell’area degli addetti ai lavori, ma scarsamente capace di farci fare esperienza della «buona notizia».
In realtà il messaggio di questo brano, pur nella ricchezza dei termini e dei concetti usati dall’evangelista, è di una semplicità disarmante: «io vivo e voi vivrete» (v.19), quale esperienza più diretta e quotidiana di questa? Possiamo teorizzare all’infinito sull’energia luminosa, sulle onde e le frequenze, ma possiamo anche goderci il sole su un prato o una spiaggia. Riconoscere la realtà che siamo e ci circonda, dare ad essa un nome, è già fare un’esperienza mistica non solo del mistero che ci sovrasta ma di quello che siamo e che conosciamo perché lo viviamo ogni giorno e ci interroga, si presenta in ogni respiro e in ogni pensiero, in ogni progetto e ricordo. Il solo aprire gli occhi è un’esperienza mistica, anzi «cristica».
Del resto il giudizio sul mondo «che non vede e non conosce» non è una condanna inappellabile, è lo stesso messaggio incontrato nel brano del cieco nato: essere ciechi non è peccato, è la costruzione di una realtà alternativa intorno alla cecità che è un guaio (cf. Gv 9,41). E’ lo sport del momento, quello di ricostruire la realtà intorno a pregiudizi e precomprensioni, il messaggio vociato e basato sul nulla, l’immagine fuori contesto (il famoso cormorano impantanato nel petrolio nella guerra del Golfo che non era affatto lì e neppure in quel periodo, per esempio, primo di una lunga serie).
«Io vivo e voi vivrete»: una teologia concreta del dono dello Spirito. «E vi fu grande gioia in quella città»(At 8,8; 1° lettura): altra dimostrazione che non ha bisogno di pezze d’appoggio filosofiche e teologiche.
Ma siamo capaci di gioire per la vita? Non di fare dimostrazioni, conferenze o documenti: gioire per la vita salvata, accolta, per i bambini che non sono affondati nel Mediterraneo, per gli uomini e le donne che sono riusciti a porre i piedi nudi e piagati sulla riva del nostro paese. Che gioia! Che bellezza! Che sospiro di sollievo per la morte scampata! No? Non è così? Allora forse qualcosa davvero non va. Ed ecco perché in questo momento occorre riconoscere che è Francesco un grande testimone di questo messaggio. Non per la sua simpatia, né per la capacità di «bucare lo schermo» come qualsiasi guitto, bensì per la sua «parresia», la sua franchezza nel dire le cose senza contorcimenti diplomatici e soprattutto per la sua capacità di incarnare una prassi per la Chiesa: più che coi documenti Francesco parla con gli abbracci, le lacrime, la commozione, l’allegria, l’invito, l’ascolto. E’un pontefice che non pontifica, è un passo avanti a molti di noi e per questo può indicare una strada del tipo: l’ha fatto lui, posso farlo anch’io. Ha accolto, ascoltato, incoraggiato queste persone, posso farlo anch’io. In questo modo si apre e si propaga una via alla gioia, alla conoscenza e all’incontro con il Risorto vivente nel suo Spirito.
*Cappellano del carcere di Prato