Guardiano, porta, agnello: la «pastoralità» di Gesù
La liturgia di questa domenica ci presenta una delle immagini che meglio esprimono l’identità di Cristo, quella del buon pastore (Gv 10, 1-10). A dir la verità il brano di Giovanni è assai più sfaccettato e non si limita solo a presentare questa immagine: Gesù è anche la porta, probabilmente anche il guardiano (almeno così è presentato in 1Pt 2,20-25; 2a lettura) , così che questo tratto, che potremmo chiamare della «pastoralità», acquisisce quasi una vita propria, una modalità che, pur radicata in Cristo e da lui proveniente come sorgente, può essere condivisa e diventare tipica nei rapporti all’interno della comunità. La pastorale, infatti, è l’attività principale della Chiesa, il senso stesso del suo esistere, che comprende il compito di annunciare la parola, celebrare la liturgia, vivere la diaconia del servizio e la testimonianza della carità.
La contemporaneità per cui Cristo è pastore e porta, ed anche Agnello (cf. Ap, 7, 17), si estende alla comunità cristiana che è annunciatrice e discepola, che nutre e cura ed è nutrita e curata dal suo annuncio. Quando Pietro annuncia: «salvatevi da questa generazione perversa» (cf. At 2, 36-41; 1a lettura), si rivolge alla stessa generazione perversa che ha rifiutato il Cristo e che adesso è invitata alla conversione; non c’è da salvarsi da qualche nemico esterno, piuttosto da sé stessi. L’annuncio accolto e vissuto aiuta a prendere le distanze da sé, a reinterpretarsi con lo sguardo di Cristo, a scoprire lo stesso Cristo presente in noi, la realtà più profonda del nostro essere nella quale rintracciare il nostro volto più autentico.
L’importanza di questa relazione viene sottolineata nel brano evangelico dalla venatura polemica verso chi volesse pretendere di astrarre dal rapporto con Cristo, «porta delle pecore» (v.7), un rapporto così vitale da addirittura coinvolgere coloro che sono venuti prima di Lui. Dovremmo pensare che essi sono «ladri e briganti» (v.8), come dice il testo, pur essendo precursori e profeti? No, certamente, ma solo perché e in quanto sono in relazione con Cristo: anche nei confronti del Battista, a detta di Gesù, «il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,11), il Cristo non ha comprimari. Un tema che ci riporta a quest’ultimo personaggio è anche l’utilizzo, diverse volte in pochi versetti, del termine «voce»: le pecore non riconoscono la voce degli estranei ma riconoscono e ascoltano quella del pastore (vv.3-5). Il Battista è voce che grida nel deserto (cf. Gv 1,23), Cristo è la Parola fatta carne (cf. Gv 1,14): in lui c’è questa piena consonanza fra voce e parola, la sua voce è ripiena della parola del Padre che egli conosce e le cui parole comunica a noi (cf.Gv 12, 49-50). Non è così per il Battista, né per alcun altro profeta o annunciatore.
La voce di questi, la voce della Chiesa, la nostra voce non è che vibrazione di suoni se non riempita della parola che è Cristo. È il prodotto degli organi di fonazione, prodotto della nostra umanità. Ma è un umanità condivisa e assunta da Cristo e che si presta quindi ad essere messa a suo servizio così che, come dice la famosa preghiera, possiamo essere «l’ultima Bibbia che i popoli leggono ancora, l’ultimo messaggio di Dio scritto in opere e parole».
*Cappellano del carcere di Prato