La Domenica delle Palme, seme in attesa di sbocciare
Si apre, con la Domenica delle Palme, la grande e santa settimana che è il cuore di tutto l’anno liturgico. Una settimana che, per certi versi, può ricordarci quella primordiale della creazione, con la quale prende inizio il racconto biblico, e della quale è il pieno compimento. Chiedo scusa ai biblisti e ai teologi per questa affermazione, che non vuol essere superficiale o strizzare l’occhio a categorie di moda, ma la settimana santa potrebbe essere assimilata (molto imperfettamente e solo a mo’ d’esempio) a un ipertesto, forma di comunicazione tipica dei nostri giorni che ci permette letture trasversali di documenti altrimenti difficili da realizzare. La settimana santa presenta infatti un ricchissimo intersecarsi di temi, simboli, brani scritturistici, che si rimandano l’un l’altro accordandosi armonicamente nella grande sinfonia della salvezza.
La liturgia della Domenica delle Palme, in particolare, racchiude in se stessa, come un seme in attesa di sbocciare, tutti i momenti che ritroveremo nelle celebrazioni della Settimana, non solo nel Triduo ma anche nei giorni feriali, in un percorso di ripresa e di approfondimento. Potremmo seguire il percorso indicato da Isaia con i suoi «canti del Servo» che, a partire da oggi, ci condurranno quasi di giorno in giorno verso il Venerdì, o il tema dell’unzione che ritroviamo al Lunedì e nella Messa crismale, o ancora gli inni che scandiscono le grandi celebrazioni, le antifone delle Palme, del Giovedì Santo, i lamenti del Signore del Venerdì, fino all’Exsultet o al «Victimae Paschali» della Pasqua del Signore.
Come in ogni sinfonia potremo lasciarci avvolgere dall’una o dall’altra voce che risponde alla nostra sensibilità o desiderio. La liturgia ci chiede di sentirci parte in causa, ci invita anche a gesti concreti che non sono semplicemente rappresentazioni scenografiche. La processione delle Palme, la lavanda dei piedi, il bacio alla croce, la benedizione del fuoco non sono un teatrino sacro. Ci dicono che la realtà annunciata dalla liturgia è la nostra realtà. Non dobbiamo far finta di essere là, di essere come gli apostoli o la folla, di essere alla cena del Signore. Noi siamo là, siamo alla cena, siamo nel tempo del giudizio e della salvezza, siamo continuamente di fronte alla scelta di Pietro, Giuda, Erode o Pilato. Nella preghiera e nella liturgia, diceva Agostino, «riconosciamo sia le nostre voci in lui (Cristo), come pure la sua voce in noi».
Cosa significa quindi cantare il nostro «Osanna al redentore» alla processione delle Palme? Rappresentare quello che è accaduto? In questo caso dovremmo anche esprimere, dopo cinque giorni, il nostro «via, via crocifiggilo!» (mentre invece saremo invitati ad adorare l’ «albero della nostra salvezza»). Significa glorificare il Messia sottolineando che noi stavolta non gli volteremo le spalle? Ma non sarebbe assai pretenzioso tutto questo? Allora quale lo scopo di un gesto liturgico di questo tipo (ma forse anche di altri simili, come la lavanda dei piedi, o la via crucis)? La liturgia ci conduce all’interno del santuario, non solo quello non fatto da uomo, che è Cristo (cf. Eb 9,24), ma il santuario che è l’uomo stesso, che siamo noi. La liturgia ci aiuta a scoprire le nostre vere motivazioni, la ragioni, le pretese della nostra vita, le grandezze e le meschinità, i desideri e le velleità. La liturgia è allora davvero non solo servizio divino ma anche profondamente umano, non vuoto rito ma ingresso nel mistero del nostro essere che affonda le sue radici nel mistero della redenzione.
*Cappellano del carcere di Prato