Nell’umanità di Cristo brilla la luce divina
In principio era il Pellegrino, così, parafrasando l’inizio del Vangelo di Giovanni, potremmo intitolare il brano di Genesi nella prima lettura della liturgia di oggi (Gn 12, 1-4). In questo mettersi in cammino di Abramo riconosciamo, infatti, l’inizio di una storia di salvezza che, per i cristiani, culmina appunto nel farsi pellegrino dello stesso Verbo di Dio che viene a porre la sua dimora in mezzo agli uomini.
Il mistero del viandante sta alla base della comprensione di noi stessi e della nostra fede. È un fondamento mobile, non un assioma filosofico, ci parla di strada, polvere e sudore, ci parla di rischio per la stessa vita. Un migrante sta alla base della nostra identità, ed è per questo che la migrazione, come categoria antropologica, è così importante, non può essere semplicemente ridotta a un problema di ordine pubblico, alla difesa di uno status quo. È una realtà rischiosa in ogni caso: è facile identificare il migrante con l’invasore, il pellegrino col colonizzatore, anziché con l’ospite, con la presenza beatificante dell’altro. Questo specialmente quando cessiamo di muoverci e viviamo in difesa di ciò che è acquisito, dimenticando i proclami del passato sullo «spazio vitale» a cui si avrebbe diritto o riguardo alla missione civilizzatrice della quale saremmo stati investiti. È una dialettica non facile, ma che occorre affrontare senza isterismi. Se la storia è maestra di vita potremmo anche far tesoro del fatto che perfino le invasioni barbariche dei primi secoli dell’era cristiana non furono una pura e semplice ondata distruttiva, perché produssero in poco tempo nuove realtà ecclesiali, chiese locali con una diversa tradizione, lingua e liturgia, contaminazioni ricche di vitalità. Finché ci riconosciamo figli di Abramo non potremo che continuare ad essere aperti a questo mistero del cammino.
La trasfigurazione è l’altro grande tema di questa domenica (Mt 17, 1-9). Pur essendo un tema che ricorre ogni anno l’accostamento liturgico con la prima lettura ci offre una prospettiva particolare. Potremmo dire che in quel momento due percorsi si incontrano nella persona del Cristo: il percorso di discesa che dal Padre porta Gesù ad assumere «la condizione di servo divenendo simile agli uomini» (Fil 2,7) e quello di ascesa «là dov’era prima» (Gv 6,62). La grande missione di Cristo è racchiusa da questi due percorsi, ma non semplicemente come un prima e un poi, l’andata e il ritorno, ma come compresenza. È nell’umanità di Cristo che si manifesta la sua luce divina, che non eclissa l’umanità, anzi, dopo questa esperienza Gesù scende dal monte per scendere fino all’ultimo gradino del limite umano, la morte in croce. È quello che permetterà di percepire il vittorioso nel crocifisso, colui che dona lo spirito nel momento della morte, che rende la croce fonte di vita. È quello che farà dire a Paolo: «non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» ( Gal 6,14).
La realtà umana, il nostro limite non sono semplicemente in attesa di essere superati dallo sfolgorare della luce pasquale. Fin d’ora possiamo sperimentare una vita nuova, una vita risorta che attende la piena manifestazione ma già viva e operante nella forza dello Spirito. Da questa luce possiamo trarre una percezione nuova della realtà che ci circonda, della storia e delle sue contraddizioni, per vedere nell’altro un volto di fratello che riflette quello di Cristo, l’ospite nel pellegrino, la benedizione di Dio e la sua beatitudine nell’arrivo dell’inaspettato.
*Cappellano del carcere di Prato