La lunga strada dall’Eden al Regno
Con l’inizio del tempo di Quaresima la liturgia ci propone una narrazione (Gn 2,7-9;3,1-7) nella quale possiamo collocare anche la nostra storia personale: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita…».
Non dovremmo con troppa facilità limitarci a classificare come mito il racconto di Genesi, un linguaggio ormai sorpassato e incomprensibile per la sensibilità moderna. Una narrazione dice molto di più del suo semplice contenuto, la Bibbia nasce ed esiste essenzialmente come parola comunicata, realtà valida anche per l’annuncio evangelico perché, come afferma Paolo, «come potranno sentirne parlare senza qualcuno che lo annunci?» ( Rm 10, 14). Nessun mezzo tecnologico, nessuna fiction, per accurata che sia, può sostituire la domanda del bimbo all’anziano di casa nella notte di Pasqua: «cosa c’è stasera di diverso dalle altre notti?». Lo stesso può valere per il racconto di oggi: forse possiamo aver avuto esperienza di qualcuno che ci ha raccontato qualcosa di noi, la madre, il padre, i nonni, ma anche la Bibbia stessa, con il suo linguaggio umanamente limitato può aiutarci a capire: perché siamo così? Perché certi sentimenti o certe reazioni nascono in noi? E allora forse l’uomo e la donna del racconto non sono più così lontani, hanno tratti che ci assomigliano.
Possono essere teneri e ingenui, scontrosi e stupidi come anche noi siamo mille volte al giorno. Sono perciò capaci di dirci una verità su noi stessi, di darci un consiglio e un suggerimento, uno scappellotto e una pacca sulla spalla. In quella donna che risponde al serpente con fare da maestrina, forse col ditino alzato: «Dio ha detto così e così…» (cf. Gn 3,3,) non ritroviamo la nostra fiducia (fino alla prosopopea) finché stiamo al sicuro fra la gonne della mamma? E come siamo bravi a dire agli altri quello che dovrebbero o non dovrebbero fare! Ma a un certo punto scoppia l’aneurisma adolescenziale: adesso che ho capito che ci sto a fare attaccato a questa persona? Questa vicinanza mi va stretta: e se questa casa, questa persona, questa situazione fosse una prigione? Ma si, vada come deve andare. Il dado è tratto.
Però la scena cambia di nuovo: prima mi sentivo chissà chi, ora mi sento vergognosamente nudo. Ho varcato la soglia e ho perso, non servo più a nulla. Vattene Dio, non guardarmi così, non sono più come pensavi, forse non lo sono mai stato. Questo bel giardino è come se non fosse mai esistito. «Trattami come uno dei tuoi servi», dirà il figlio prodigo (cf. Lc 15,19). E come sono belle allora quelle tuniche di pelle che Dio cuce per l’uomo e la donna (cf. Gn 3,21). Sembra quasi di sentire Dio che dice: « ma guarda un po’ cosa mi tocca fare». Eppure le fa, e con amore, come la madre che rimprovera il figlio e poi gli prepara la merenda. Certo qualcosa è accaduto, indietro non si torna. Forse vale anche per Dio il fatto che l’uomo dovrà «lasciare suo padre e sua madre» (cf Gn 2,24).
Forse (e la parabola del figlio prodigo lo esprimerà chiaramente) Dio, come padre, sperimenterà l’ansia per questo figlio sempre a rischio di perdersi. Ma accetterà la sfida, lascerà che questo accada. Di più: lo Spirito spingerà il suo Figlio, ogni suo figlio, nel deserto della tentazione (cf. Mt 4,1-11). Non si può tornare indietro ma si può andare avanti. Non c’è più un Eden da recuperare ma un Regno da cercare ed accogliere (cf. Mt 13, 44-46). Sarà una strada molto lunga, una battaglia da combattere ogni giorno. Arriverà alla croce, il vero albero della vita dove si decide nuovamente tutto, per Cristo come per ogni uomo.
*Cappellano del carcere di Prato