La luce del mondo siamo noi
Una delle affermazioni di Gesù che troviamo nel brano evangelico di questa domenica (Mt 5, 13-16) ha un contenuto così estremo da essere quasi inaccettabile: il fatto cioè che i discepoli, la comunità, la Chiesa sono «luce del mondo», ricalcando l’identità di Cristo stesso, quella con la quale si presenta ai discepoli in Gv 8, 12. Si tratta di una affermazione paradossale, certo ben fondata sulla base dell’incarnazione del Verbo di Dio nella natura umana, nel mistero di Cristo capo del corpo che è la Chiesa (cf. Col 1,18); tuttavia non è sempre agevole accogliere questa «pari dignità», per cui a volte possiamo sottolineare nella catechesi o nella predicazione dei necessari distinguo: la Chiesa brilla solo di luce riflessa, come la luna fa col sole; la sottolineatura della dipendenza necessaria da Cristo, appunto, Capo e fonte di vita ed energia. Questo anche perché non nasca una concezione trionfalistica della Chiesa, l’arroganza di chi si sente depositario della verità e plenipotenziario di Dio stesso (cosa che peraltro può anche accadere ed è accaduta). Eppure tutti questi distinguo non emergono dalla parola evangelica.
Certo possiamo dire che il Vangelo non è un codice che prevede ogni singola clausola, che si tratta di una parola fondativa, un orizzonte che si apre e che richiederà riflessioni successive per una prassi autentica, ma il fatto che Gesù Cristo parli in modo sereno, lineare, aperto, senza preoccuparsi di fissare paletti o ricevere assicurazioni è lampante. La sua fiducia, la sua dedizione è totale, senza ripensamenti, né considerazione dei rischi implicati nella concessione di una tale fiducia, che diventa ovviamente responsabilità. Si tratta di un compito che comunque non eccede la capacità dell’uomo. Cristo incarnandosi si è rivelato a noi nella sua umanità, ed è su questo terreno che chiede collaborazione e stabilisce questa «pari dignità» con i fratelli.
Non si tratta di una riduzione all’umano, si tratta della manifestazione di Dio nell’umano. E allora l’umano diventa il compito principale, un umano illuminato dall’umanità di Cristo. «Restiamo umani», era lo slogan di Vittorio Arrigoni con il quale chiudeva i post dal suo blog da Gaza nel 2008 , sotto i bombardamenti dell’operazione militare «Piombo fuso», un invito che possiamo accogliere pienamente perché nell’umanità possiamo riconoscervi la presenza di Cristo. Ed ecco l’invito così semplice e disarmante eppure, a quanto sembra, così difficile di Isaia (Is 58, 7-10): «Non consiste forse il digiuno nel dividere il pane con l’affamato»?. In realtà facilmente questa richiesta viene posposta a una marea di considerazioni, di clausole, di opportunità, di distinguo. Il trincerarsi dietro la burocrazia, le richieste preventive svuotano da di dentro il senso della testimonianza cristiana.
Può darsi che la società possa o perfino debba fare questo, ma occorre aver chiara la distanza che intercorre con la testimonianza resa all’umanità rivelata da Cristo, senza dare troppe facili patenti di cristiana a quella o quell’altra società. Sicuramente non è facile essere luce e la tentazione di essere qualcos’altro, di attivare modalità di risparmio di energia è forte. Ma aver chiara la grandezza del compito affidatoci e l’immensità della fiducia di Cristo nei confronti dell’uomo è ugualmente essenziale.
*Cappellano del carcere di Prato