Perché Gesù sceglie i pescatori
Anche questa liturgia domenicale conserva echi del tempo natalizio: ancora una volta ci viene annunciato l’arrivo della luce in un mondo di tenebra (Is 8,23-9,3; 1a lettura), la luce del Cristo che ci visita come «sole dall’alto» (Lc 1,78).
Non si tratta, però, di pura e semplice ripetizione, ci viene mostrato piuttosto il lento dispiegarsi di questo annuncio che si fa vita quotidiana. Si tratta quasi di un paradosso: il sole che sorge dall’alto in realtà qui sorge piuttosto dal basso, non l’irruzione che abbaglia e blocca il mondo nella sua attività, momentaneamente accecato e reso incapace di muoversi, ma l’alba che sorge e che si infiltra nelle tenebre per dissiparne lentamente la trama e condurre l’uomo a una esperienza sempre più chiara della realtà che lo circonda e quella presente in se stesso. Lo stabilirsi di Gesù nei pressi del lago (Mt 4, 12-23) forse ha proprio questo significato: inserirsi in questa dialettica fra luce e tenebre che è la vita dell’uomo. La tipica vita dei pescatori è infatti una vita di soglia, fra luce e oscurità: si pesca di notte, si rientra all’alba, sono tempi «contaminati» rispetto alla scansione normale della vita dell’uomo. A tutt’oggi è pesante svolgere un lavoro notturno inserendolo nel contesto di vita quotidiana, è molto più facile effettuare un ribaltamento completo: vivere solo di notte, caricare di significato questo periodo, lasciando il giorno alla routine, al tempo ingrigito delle attività dallo scarso significato dalle quali fuggire appena possibile. Il pescatore, invece, deve fare i conti con entrambe le realtà.
Sarà per questo che Cristo sceglie i pescatori come collaboratori, in quanto «esperti» di una vita di soglia? Potremmo pensarlo, visto che gli apostoli dovranno anche nella nuova veste di inviati di Cristo, affrontare questa realtà ambivalente che ritroveranno in se stessi e intorno a loro. Pietro dovrà continuamente lottare fra il suo essere «roccia» e il suo essere «satana» (cf. Mt 16,23), Tommaso fra la sua fede e l’incredulità (cf. Gv 20,25), Giuda conoscerà la sconfitta in questa battaglia quando, uscito dal Cenacolo, era ormai irrimediabilmente notte (cf. Gv 13,30). Paolo esprimerà questa situazione di confine illustrando la sua vita e quella dei fratelli: «siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo» (2 Cor 6,9).
Vivere sulla soglia fra luce e tenebra è lo stesso cammino del Messia, che si troverà rifiutato e espulso da un’altra soglia, quella della città eletta che lo respinge e lo condanna a morire fuori della sue mura (cf. Eb 13,12), ma ciò non fermerà il cammino della luce che continuerà a vivere nella comunità la quale, dispersa da una persecuzione, inizierà «a parlare anche ai Greci, predicando la buona novella» (At 11,20). Credo che questo amore per la «soglia» possa e debba essere una caratteristica della chiesa in ogni tempo. Forse non sempre l’ha vissuto ma penso che oggi non possa non recuperarlo: la repulsione per le soglie, per le contaminazioni territoriali e culturali, per le mediazioni; la ricerca dell’identità, dell’arroccamento tipiche del nostro tempo chiedono di rifarsi continuamente alla missione di Cristo che dalla Galilea, regione «bastarda» per antonomasia, ha iniziato la sua missione e, dopo la Pasqua (cf. Mt 28, 10.16), ha inviato i suoi discepoli per un nuovo inizio, lasciando Gerusalemme, la santa, con il suo tempio vuoto dal velo desolatamente stracciato.
*Cappellano del carcere di Prato