Il Natale e la Pasqua, gli estremi del mistero
La liturgia di questa domenica pur facendo parte del tempo ordinario risente ancora di temi legati al tempo di Natale appena concluso. Non solo perché il brano evangelico (Gv 1, 29-34) si ricollega all’evento del Battesimo di Cristo (anzi per certi versi è la narrazione di quell’evento, che Giovanni non riporta se non come testimonianza del Battista), ma anche per il richiamo esplicito al Prologo del Vangelo, che abbiamo ascoltato nella Messa del giorno di Natale, precisamente il riferimento all’uomo che è passato avanti a Giovanni perché era prima di lui (cf. Gv 1, 15).
È una testimonianza che ritorna anche in questo brano, la ripresa di un tema che viene ulteriormente sviluppato. Si tratta, in realtà, più che di uno sviluppo di una vera e propria fuga in avanti, poiché questo annuncio di sapore natalizio già si protende verso temi pasquali: colui che si manifesta nella testimonianza del Battista è l’Agnello pasquale, l’Agnello immolato che diviene da subito icona per comprendere il mistero della venuta del Cristo, della sua stessa persona. Egli è il Servo, il misterioso realizzatore del piano di salvezza di Dio annunciato da Isaia e che estenderà il suo operato fino all’estremità della terra (Is 49, 3-6; 1a lettura ).
In questa liturgia sono quindi presenti i due «estremi» del mistero di Cristo, l’Incarnazione e la Pasqua, che racchiudono tutto il suo messaggio e permettono di coglierne il significato, unificando in lui gli eventi, gli insegnamenti o, come dice il Concilio, «i gesti e le parole con le quali Dio ha voluto rivelarsi» (DV2). Che la liturgia svolga questo compito viene messo in luce dalla stessa testimonianza del Battista: egli per ben due volte dice di non conoscere il Messia (Gv 1,31.33), pur avendo ricevuto da Dio la missione di annunciarlo, ha bisogno di sperimentare un incontro. Lo stesso evangelista, a sua volta, non descrive l’evento del Battesimo ma ce lo propone attraverso l’esperienza fatta dal Battista, quasi come dire che il mistero di Cristo lo si può cogliere solo nella testimonianza, sia essa ricevuta che donata.
L’annunciatore stesso deve essere il primo uditore della parola che annunzia, anche lo svolgimento di un compito ricevuto da Dio attende di essere riempito di una esperienza vitale, non episodica: il rimanere dello Spirito su Gesù dice la continuità di una essenza, della sua vocazione messianica, ma anche la continuità di un’esperienza che coinvolge la comunità cristiana. E’ il rimanere dello Spirito su Cristo che richiede il nostro rimanere in lui (cf. Gv 15,4). La nota affermazione di Paolo VI sul mondo che è più disposto ad ascoltare i testimoni che i maestri può spiegare questo. Dove per testimonianza non si intende un generico buon esempio ma la narrazione, la comunicazione di qualcosa che ha scaldato il cuore (cf. Lc 24,32), un’apertura nell’orizzonte della vita che l’annuncio evangelico ha provocato innanzitutto in chi annuncia, una possibilità che ha riaperto un situazione bloccata dalla tristezza o dal non senso. Ritornerà tutto questo nell’episodio del cieco nato, dove la persona non avrà tempo da perdere per definire la qualità o meno del Messia secondo i canoni dell’ortodossia teologica, ma racconterà semplicemente che «prima ero cieco e adesso ci vedo» (cf. Gv 9,25).
*Cappellano del carcere di Prato