Giuseppe il rivoluzionario
La liturgia di quest’ultima domenica di avvento ci porta alle soglie dell’evento dell’Incarnazione, anzi ormai compiuto nel grembo di Maria, e Giuseppe è posto dinanzi ad esso come a un fatto che provoca la sua riposta (Mt 1,18-24). In questo senso Giuseppe è davvero il prototipo del credente, oserei dire anche più di Abramo. Quest’ultimo, infatti, ha sperimentato l’ingresso di Dio nella sua vita, è Lui che gli parla, che lo incontra sotto la sua tenda, Giuseppe arriva a cose già fatte. Se già prestar fede ad un annuncio non è cosa facile (e Zaccaria lo sperimenta sulla propria pelle diventando muto [Lc 1,20]) per Giuseppe non c’è neanche quello, perché si trova di fronte al fatto compiuto dell’arrivo di un figlio non proprio.
A volte, nella predicazione, viene sottolineata l’importanza di Giuseppe nella storia della salvezza, ma forse con scarsa convinzione, come per dare un contentino anche a lui, semplice satellite nell’orbita dell’astro luminoso che è la Vergine. Eppure Giuseppe compie un azione rivoluzionaria con la sua scelta di farsi carico di Maria e del figlio e di non denunciarla. La legge di Mosè prevede infatti la morte per casi simili, non si tratta di un possibilità, ma di un dovere perché venga «tolto il male di mezzo al popolo» (Dt 22,21).
Giuseppe è un giusto, dice l’evangelista, ma evidentemente di una giustizia diversa, non certo derivante dall’applicazione rigorosa della norma che avrebbe dovuto portarlo a prendere le distanze da Maria. Potremmo fare un po’ di fantascienza biblica e pensare che il detto di Gesù sulla vera giustizia (Mt 5,20) sia anche frutto dell’educazione ricevuta dal padre Giuseppe? Come pure il gesto di «coprire» Maria di fronte alla legge riconoscendo il figlio come proprio, abbia portato Gesù a non ritrarsi dal toccare il lebbroso? Ovvero che il Giusto, germogliato dalla terra e annunziato dai profeti (Is 45,8), abbia imparato un po’ di giustizia anche dall’umile falegname di Galilea? Non penso che sia così improbabile. Un altro aspetto singolare della vicenda di Giuseppe è la sua disponibilità a seguire la «rotta» tracciata da un sogno. E’ vero che nel sogno percepisce un messaggio divino, ma è ben diverso seguire l’esperienza dell’irruzione di una voce, di una luce dall’alto, da questa percezione che in ogni caso rimane responsabilità del soggetto. Non per niente anche oggi diciamo, quando vogliamo sottolineare la realtà di un’esperienza: «non me lo sono mica sognato!».
Giuseppe deve portare su di sé anche questa fatica, quella di credere in un sogno. E forse non è del tutto vero che nell’antichità biblica il sogno godesse di questa gran fama, era comunque un’esperienza bisognosa di qualcuno che la sapesse spiegare, come Daniele o l’omonimo patriarca Giuseppe, la cui capacità lo porta ad essere invidiato dai fratelli e venduto come schiavo (Gn 37,19). Giuseppe è solo con se stesso in questa esperienza e nella sua interpretazione, senza il confronto di un «padre spirituale» che lo aiuti nel discernimento, e in contrasto con la stessa legge divina che avrebbe previsto un esito ben diverso per tutta la vicenda. Ecco perché Giuseppe è una figura centrale, che, ben al di là di un apprezzamento pro forma, ci consente di entrare fin d’ora a pieno titolo nella novità dell’evangelo.
*Cappellano del carcere di Prato