«Sfuggire all’ira» o attendere un incontro?

Fedeltà e giustizia sono due delle qualità che caratterizzano l’azione di Dio e del suo Messia, due elementi che manifestano la sua stessa essenza (cf. Is 11, 1-10, prima lettura). Dio è infatti il Giusto e il Fedele, nella sua persona queste caratteristiche trovano una profonda armonia, cosa che, nella nostra percezione, non è affatto scontata. La nostra idea di giustizia, infatti, a volte si rifà a principi assoluti e astratti, che risiedono in un codice, una carta o in una determinata costruzione razionale, mentre la fedeltà, al contrario, ci parla di una scelta, di una assunzione di responsabilità nei confronti di qualcuno o qualcosa fondata più sulla sfera emotiva che razionale.  Io posso essere fedele a un patto anche se il patto viene violato dall’altra parte, posso continuare a tener viva la comunicazione, anche se la controparte chiude la sua porta.

Se la giustizia esige soddisfazione, la fedeltà può aprirsi al perdono. Ora in Dio queste realtà sono  compenetrate al punto che potremmo dire che la sua fedeltà è la misura della sua giustizia e che quest’ultima manifesta la sua fedeltà, che a sua volta si espande in una misericordia che tutto comprende, e che abbiamo celebrato nell’anno giubilare appena concluso.  In questo modo possiamo capire l’espressione di Paolo nella seconda lettura di oggi (Rm 15,4-9): la fedeltà di Cristo si manifesta nei confronti del popolo  dell’alleanza, basata su un impegno assunto in proprio da Dio, che non può essere messa in crisi neppure dall’infedeltà della controparte; nei confronti del Gentili c’è addirittura un’accelerazione, un dono gratuito di Dio nei confronti di chi non era neppure compreso nelle clausole del Patto, e che fa nascere  il cantico di lode e ringraziamento. Ogni impianto giuridico e retributivo è smontato e messo in crisi dall’esperienza dell’incontro con il Dio ricco in misericordia.

Colpisce quindi, nel Vangelo (Mt 3,1-12), la violenta reprimenda del Battista nei confronti dei farisei e sadducei, che pure avevano evidentemente accettato il suo invito a scendere nelle acque del Giordano. Potremmo pensare che qui il Battista adotti una visione di stampo fondamentalista, da vecchio testamento nel senso peggiore del termine, cosa che lo renderà perplesso riguardo a Cristo al punto di domandargli: «sei tu colui che deve venire?» (Mt 11,3).

Ma forse non è il caso di squalificare a tal punto il suo annuncio di oggi:  il problema è quel tentativo di «sfuggire all’ira», la possibilità che un gesto religioso, perfino sacramentale, possa essere strumentalizzato per produrre il suo contrario; invece che un incontro (ancorché schietto e franco) col il Signore, una copertura per non farsi raggiungere, un guardare a lui in modo sospettoso, come uno dei tanti potenti che è necessario adulare, tenersi buoni (perché non si sa mai) non riconoscendo che la sua «ira» si manifesta con il volto ferito del Servo che porta su di sé il peccato del mondo. Questo sottrarsi, questo «rifarsi il trucco» è quello contro cui il Battista si scaglia. È il sottrarsi che porterà Cristo, ormai vicino alla sua «ora», a piangere su Gerusalemme perché non ha compreso la via della pace, non ha voluto essere radunata «sotto le ali» del Signore (cf. Mt 23,37).

*Cappellano del carcere di Prato