La visione di Isaia, così bella da farci male

Con l’inizio del tempo di Avvento e di un nuovo anno liturgico ritroviamo alcuni temi già accennati nelle ultime domeniche, ma con delle sottolineature particolari. L’invito alla vigilanza, tipico di questo tempo (Mt 24,37-44) sembra quasi un appello ormai incapace di trovare accoglimento: esso si situa in mezzo a tanti altri tempi e calendari, alle più varie scansioni cronologiche. Eppure l’appello alla vigilanza è cruciale anche per il nostro tempo.

Per certi versi siamo quasi ossessionati dalla vigilanza: la rete di satelliti, di droni, di telecamere che riprendono ogni angolo della città, l’ascolto elettronico delle nostre conversazioni telefoniche, lo spionaggio delle e-mail, tutto questo dovrebbe darci la sensazione di avere la situazione sotto controllo, specialmente se i vigilati non siamo noi, eppure la sensazione è totalmente diversa. E’ una vigilanza delegata ad altri, che non produce alcuna sapienza, né cultura, e neppure capacità di analisi e di intervento sulla realtà vissuta. Vi sono studi  e organismi deputati al controllo della situazione dell’ambiente, del clima, della società, vengono prodotti migliaia di documenti, senza che questo provochi una riflessione, limitandosi a rimandare a domani il problema o sognando soluzione magiche, prestando fede al primo pifferaio che ci illude che questo sia il migliore dei mondi possibili,  o creandosi il nemico di turno sul quale riversare la responsabilità.  Vigilare significa non solo guardarsi intorno e sorvegliare che gli equilibri esistenti non vacillino, significa guardare in avanti, essere alla ricerca di qualcos’altro.  La liturgia di oggi, perciò, non contiene solo l’ammonimento a rendersi conto dello sbilanciamento del mondo presente, dell’equilibrio precario in cui viviamo, senza addormentarsi sugli allori, della faglia che da un momento all’altro può spaccare il mondo dell’uomo e delle sue relazioni.  E’ una spaccatura che si insinua, come la Parola stessa, nel profondo della vita dell’uomo (cf. Eb 4,12), così che in uno stesso ambiente,  in uno stesso campo, uno viene preso, l’altro lasciato. E’ interessante l’uso del termine: prendere e lasciare, così poco caratterizzato in senso morale che non si capisce alla prima se sia meglio essere presi o lasciati. Lo si comprende solo nel desiderio dell’«essere con il Signore» (cf. 1Ts 4,17), nel desiderio della novità di Dio. Ecco perché anche nel tempo presente  la visione di Isaia (Is 2, 1-5) può essere così bella da farci male, se la prendiamo sul serio, questo convenire dei popoli sul monte del Signore, visione che fa male soprattutto se la sovrapponiamo a quello che oggi, storicamente, è rimasto del monte del Signore, la spianata che è oggetto di continui scontri, provocazioni, dissensi politici e finanche grammaticali e linguistici.

Archiviare definitivamente la profezia di Isaia come irrealizzabile sarebbe però uccidere il concetto stesso di vigilanza. Lungi dall’essere la ridicola sindrome da accerchiamento a cui è ridotta la vigilanza del nostro tempo essa è attesa del futuro di Dio, il guardare attento e forse ansioso di scoprire i germogli di questo annuncio. Ed ecco perché l’Avvento, in mezzo ai nostri grigi calendari ha ancora ragione di essere come guizzo di novità per una luce che, nella notte, viene.

*Cappellano del carcere di Prato