Viaggiamo leggeri verso la fine dei tempi
La liturgia di oggi ci presenta, come ogni volta verso la conclusione dell’anno liturgico, temi legati alla fine del tempo presente e all’ultima venuta del Signore. Sono temi che generano solitamente una certa inquietudine, ma forse quest’anno più del solito, sembra quasi di cattivo gusto che la liturgia ci parli di sconvolgimenti e catastrofi in questi giorni di apprensione per le sorti di paesi e persone colpite dal terremoto, o di guerre e distruzioni sullo sfondo delle immagini dell’agonia di Aleppo che la televisione ci propone ogni giorno.
La stessa considerazione di Gesù Cristo (Lc 21,5-19) sull’inevitabile caducità di strutture pensate come manifestazioni incrollabili di realtà eterne, come il Tempio di Gerusalemme, può provocare stizza, repulsione, come si trattasse di una iettatura da respingere a colpi di scongiuri.
D’altra parte è anche vero che c’è sempre qualche bella mente, anche in questi giorni, che si premura di farci sapere che il terremoto, come già l’AIDS in passato, è una punizione per le infedeltà e l’abbandono dei valori cristiani, eccetera. Del resto una delle motivazioni delle persecuzioni contro i primi cristiani da parte delle autorità imperiali era quella di essere «nemici del genere umano»; e nella liturgia domenicale è vero anche che si pregava: «passi questo mondo», come riporta uno dei più antichi documenti cristiani del primo secolo, la Didachè.
Ma è proprio vero che il messaggio di Cristo porta con sé quest’aura negativa? Di per sé basta che qualcuno metta in dubbio l’impalcatura costruita dai ragionamenti umani, dalla stessa religione, dagli assetti politici e sociali per essere accusato di disfattismo. La rimozione è uno dei meccanismi psicologici più potenti: ci illude che non parlare di una cosa equivalga a evitarne la minaccia, all’opposto avere un oggetto rassicurante ci illude di essere protetti contro le nostre paure, si tratti della coperta di Linus o del Tempio stesso.
Nel vangelo di questa domenica c’è questa chiarezza di Gesù, nessuno spauracchio, nessuna minaccia, anzi, la promessa che «nemmeno un capello andrà perduto». E nella prima lettura la fiamma distruttrice di Malachia (Ml 3, 19-20) è solo l’altra faccia del benefico «sole di giustizia» che sorgerà a salvezza dei fedeli. Già nella notte dell’Esodo la fiamma che apriva il cammino al popolo era oscurità per gli inseguitori (cf. Es 14,20): una stessa realtà con due esiti ben diversi. Senza evocare angeli sterminatori, possiamo guardare alla croce di Cristo, inerme agnello immolato, sapendo che essa stessa è contemporaneamente salvezza e giudizio (e addirittura giudizio DI salvezza), confortati dalla bellissima antifona di ingresso tratta da Geremia: «ho progetti di pace e non di sventura» (Ger 29,11). L’invito della liturgia è quindi a un cammino leggero, non sovraccarico di amuleti inutili, anche se si tratta delle belle pietre del tempio; a distinguere ciò che è provvisorio, e forse per qualche tempo anche utile, da ciò che è definitivo. A ricordare che «uno solo è buono» (Mc 10, 18). E chi viaggia leggero è capace di dire all’imbonitore di turno, senza astio o cattiveria, «lascia perdere tutta questa paccottiglia, non mi serve».
*cappellano del carcere di Prato