La fatica di annunciare

Il brano evangelico che la liturgia oggi ci presenta sembra la realizzazione di quanto annunciato da Isaia al cap. 52,7: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace…», messaggio di pace presente anche nella prima lettura (Is 66,12), pace che cammina sui passi degli uomini e che risuona nel saluto degli inviati di Cristo che camminano, come già notato nel brano di domenica scorsa, ancora una volta «dinanzi al suo volto» (Lc 10,1).

L’invio dei discepoli infatti non può essere scollegato dal Cristo che li manda, essi non operano come sostituti, ma come precursori, un po’ come era stato per il Battista inviato a «preparare un popolo ben disposto»(Lc 1,17). Infatti il versetto evangelico sottolinea che Gesù invia gli apostoli «nei luoghi dove stava per recarsi». E infatti, come l’annunciatore di pace nel brano di Isaia, così i discepoli di Cristo hanno la loro ragion d’essere in virtù di quello che Dio, in Cristo, sta per compiere. Gesù invita apertamente a non gioire per una sorta di «superpotere» loro conferito, ma al rallegrarsi perché i loro nomi sono scritti nel cielo (cf. Lc 10,20). Solo i nomi degli apostoli? Forse anche  i nomi della moltitudine «che nessuno poteva contare» (Ap 7,9), che ha ritrovato la via di  casa grazie alla redenzione operata da Cristo e annunciata dalla Chiesa. Rallegrarsi quindi della grazia abbondantemente riversata su ogni uomo (cf. Ef 1,8). 

Si apre qui il capitolo del rendimento di grazie, della lode a Dio per quanto operato per la salvezza dell’uomo, un tema eucaristico. Da questo punto di vista non c’è spazio per uno sguardo rattristato, scettico o amaro sul mondo, magari con la scusa o la pretesa di sottolinearne l’aspetto di chiusura al soprannaturale. Anche il brano di oggi può essere letto in questa chiave, un tentativo di lanciare un messaggio al popolo eletto ben sapendo che non sarebbe stato accolto, una pura formalità destinata al fallimento, oppure considerarlo una specie di prova generale per la missione ben più importante che avrebbe preso il via dalla pasqua. In questo senso la missione post pasquale avrebbe reso questa missione iniziale sorpassata e pressoché inutile.

È vero che il regno annunziato da Cristo non si realizzerà in una generale accoglienza, dovrà confrontarsi con il rifiuto e la morte del Messia. Ciò non significa che il tentativo di creare qualcosa di nuovo, annunciare l’approssimarsi del Regno di Dio qui ed ora debba essere messo da parte, concentrandosi solo su ciò che lui realizzerà nell’eternità. Questa prima missione dei discepoli conserva comunque un valore ispiratore per noi che viviamo il momento presente. Le fatiche quotidiane, l’attesa del Regno alla fine della storia non possono svalutare gli sforzi per rinnovare la nostra vita, dare speranza per l’oggi. La croce di Cristo, dice Paolo, è una cifra del nostro cammino (cf Gal 6, 14-18, 2a lettura), ma l’essere nuova creatura comincia a prendere campo nel nostro tempo, credendo che l’annuncio della pace possa risuonare e produrre frutto nella nostra vita.

*Cappellano del carcere di Prato