Quale risposta dare al dolore di una madre?
Riprendono questa domenica le celebrazioni festive del tempo ordinario con l’episodio evangelico del figlio della vedova ridestato dalla morte da Gesù.
La scorsa estate ho avuto l’occasione di passare dal villaggio di Nain, nei pressi del lago di Galilea, dove una piccola chiesa, abbastanza anonima, ricorda il prodigio. Sotto il sole di mezzogiorno il paese era totalmente deserto, c’era solo un ragazzino che girava con la bicicletta forse in attesa che la madre lo chiamasse a pranzo. Un’immagine serena, ma in fondo anche drammatica, questo ragazzino, unico essere vivente che si aggirava in una specie di paese fantasma.
Ma forse è proprio questa un’icona della vita, un prodigio continuamente in bilico fra speranza e dramma, un fiore che continuamente cerca di sbocciare in una terra arida e che il più delle volte vince la battaglia ma a volte no, come nel caso del giovane del vangelo, come nel caso di tante e tante giovani vite spezzate per i motivi più diversi, dalla malvagità umana alla cieca casualità della natura. Realtà che pone domande che muoiono su labbra incapaci di rispondere.
Anche il profeta, nella prima lettura (1Re 17,17-24), non fa eccezione, non dà risposte, ma non può tacere e allora grida verso il suo Dio un rimprovero esplicito che nasce da una fede che non fa sconti neppure a Lui. Gesù stesso non dà alcuna risposta, ma fa qualcosa, rialza il ragazzo. È questo, forse che ci manca. Cerchiamo risposte invece di fare qualcosa, o, se incapaci di fare qualcosa, innalzare il nostro grido a Dio.
Credo che chi ha svolto un servizio pastorale in una parrocchia si sia imbattuto più di una volta in drammi di famiglie che vivono un dolore simile a quello della vedova, e abbia sperimentato l’incapacità di dare una risposta, magari logorandosi anche per cercarla o, Dio non voglia, cercandola confezionata da qualche parte, fosse anche il catechismo o la teologia.
Le mani vuote, le terribili mani vuote di chi vorrebbe prendere quel fanciullo, quella bimba, quel giovane per le mani e rialzarlo e le sente totalmente morte, mummificate dalla mancanza di uno spirito saldo che le vivifichi e le renda strumento di vita.
E allora non rimane che il grido, convinti che anche quello e proprio quello sia preghiera, perché significa non rassegnarsi, perché se anche nelle nostre mani non si trova quello spirito forte, sappiamo che da qualche parte c’è e da qualche parte verrà, anche se dovremo attendere che le nostre ossa siano sparse nel deserto perché Egli le raduni e le renda nuovamente vive. E non accontentarsi di niente di meno della vita, di un amore immenso e assoluto per la vita, non venire a patti con la morte, senza rassegnarsi mai anche se non la vediamo ancora sconfitta, anche se questa sconfitta non verrà da noi. E non lasciarsi guidare dalla paura, avere gli occhi per vedere le lacrime sui volti degli uomini senza giudicare, senza dire «se la sono cercata».
Perché anche questa sarebbe una risposta, un riportare una ferita sulla pagina di un formulario, dando il colpo di grazia a un’invocazione messa a tacere. Nutrire la preghiera di protesta.
*Cappellano del carcere di Prato