Pentecoste: capirsi grazie allo Spirito Santo

La liturgia di Pentecoste offre una ricca serie di letture bibliche, quelle delle due Messe, vigiliare e del giorno, più alcune utilizzabili per arricchire la celebrazione, in una sorta di veglia. Perciò potrebbero essere molte le piste di riflessione da considerare. Ritengo comunque sempre interessante il confronto fra l’episodio della torre di Babele (Gn 11,1-9, 1a  lettura della vigilia) e la narrazione di Atti (At 2,1-11).

A un primo sguardo potrebbe sembrare un’evoluzione abbastanza lineare: dal non capirsi al capirsi, dalla disunione all’unione.

In realtà le cose non sono proprio così semplici: vi è una rottura che permane in entrambi i casi fra linguaggio e comunicazione.

La babele delle lingue è solo la conseguenza di una rottura più profonda, che Genesi individua nella rottura della comunicazione con Dio, che rende la comunicazione fra gli uomini utilitaristica e velleitaria nell’elaborare il progetto della torre, e porta alla rottura del linguaggio. Gli uomini non comunicano, non perché parlano lingue diverse; parlano lingue diverse perché non comunicano. In questo senso la Pentecoste è il ristabilimento della comunicazione globale: gli uomini sentono gli apostoli parlare nelle loro lingue pur continuando, questi ultimi, a parlare la loro. Di nuovo: si comunica e allora ci capiamo. La comunione, l’invocazione e l’apertura all’uomo nuovo creato dallo Spirito è la «terra» che fa sentire ciascuno a casa sua. Allora a partire da questo possiamo porci alcune domande. Senza voler essere demagogici, riconoscendo che la Pentecoste non può essere immediatamente utilizzata come un codice di comportamento, ma riconoscendo che essa ha comunque un influsso nella costruzione della nostra visione di vita cristiana e umana: qual è l’esperienza dello straniero in mezzo a noi? Lo capiamo? Ci capisce? È solo un problema linguistico? È la ricerca ossessiva di identità sempre più ristrette, la piadina contro il kebab, che può portare a capirsi? Un problema di comunicazione, non lo si può risolvere solo coi corsi di alfabetizzazione o con esami che certificano la conoscenza di una cultura. Il problema è: ci interessa l’altro? La sua storia? Sappiamo da dove viene? La comunicazione deve essere sempre a doppio senso, altrimenti è assimilazione, etnocentrismo.

E riguardo all’esser-sempre-connessi tipico della nostra era: il profluvio di parole, immagini, simboli che si riversano su noi a ciclo continuo è esperienza di comunicazione? Neppure i nativi digitali, quelli che imparano prima a scrivere SMS che a parlare, sono garantiti da questo «esperanto» moderno. Comunicare è un’altra cosa.

La ricerca della giustizia, del bene, della pace, di un volto di Dio che non sia semplicemente la proiezione della nostra sete di potere, può accomunarci a tanti uomini di questo tempo, farci capire e comprendere di essere tutti germogli  nel grembo del mondo, portarci a parlare il linguaggio del silenzio, dello stupore, della gratitudine. È il comunicare a questa vita, che è uno dei volti dello Spirito,  che fonda una comunicazione nuova.

*Cappellano del carcere di Prato