Rimanere in Lui, per una gioia piena
Il Vangelo di oggi è la continuazione del Vangelo di Domenica scorsa. Gesù, dopo averci presentato l’allegoria della vite e dei tralci, spiega quello che avviene in quelli che rimangono attaccati a lui.
Ci sono, per Cristo, infatuazioni superficiali, che nascono dall’emozione e dall’entusiasmo di un momento, e c’è un attaccamento forte e duraturo, che nessuna tentazione e nessuna prova è capace d’infrangere.
Questa adesione forte e decisa è espressa da Giovanni con il verbo rimanere, che ricorre ben sette volte nella parabola della vite ed è ripreso per tre volte all’inizio del nostro brano.
Gesù rimane nell’amore del Padre, perché è sempre unito a lui, gli è fedele e fa sempre le cose che gli sono gradite (Gv 8,29).
I discepoli possono divenire nel mondo un riflesso di questa unione solo se rimangono nel suo amore e osservano i suoi comandamenti. Osservare i suoi comandamenti: non diventando schiavi della Legge, ma mettendo in pratica la sua Parola: «Se qualcuno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).
Nei primi versetti del brano Gesù non presenta il suo amore come un modello da imitare, ma come una vita che continua nei discepoli, i quali, nel battesimo, sono stati inseriti in lui divenendo sue membra. Così è lui stesso che attua in loro la propria vita. Nei discepoli è Cristo stesso che annuncia la lieta notizia al povero, che ama, cura, consola, asciuga le lacrime della vedova e dell’orfano.
Frutto di questa unione con Cristo e con il Padre è la pienezza della gioia (Gv 15,11). Per sette volte nel Vangelo di Giovanni ricorre il termine gioia. Il primo a impiegarlo è il Battista (Gv 3,29): «l’amico dello sposo esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è completa». Dice Gesù: «Chiedete ed otterrete, perché la vostra gioia sia piena» (Gv 16,24), «la vostra afflizione si cambierà in gioia» (Gv 16,20). La donna, dopo il parto, «non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al modo un uomo» (Gv 16,21). «Vi ho detto queste cose, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). «Nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16,22). «Dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17, 13)
Questa gioia, l’unica vera e duratura, non può essere ottenuta che seguendo Cristo e portando la sua croce: «la vostra afflizione si cambierà in gioia», ha detto Gesù. E non è, questa, la grande lezione della Pasqua?
E non ti fa battere il cuore di gioia essere chiamato «amico» da Gesù? e ascoltarne i motivi dalle sue stesse labbra? Il servo è coinvolto solo esteriormente nei progetti del padrone; il servo è un esecutore di ordini e di compiti. L’amico, invece, è un confidente, è colui col quale si coltiva una comunione di vita, di progetti, di intenti. Gesù chiama «amici» i suoi discepoli perché a loro ha rivelato il progetto del Padre: tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
L’iniziativa dell’amicizia parte da Gesù e impegna tutti a rispondere con un amore concreto, che diventa esperienza viva di accoglienza e risposta generosa e crescente di sopportazione, perdono, reciproco servizio, cordialità di condivisione fra noi, apertura a tutti gli uomini: un amore concreto che costituisce il nostro canto di gioia pasquale e il dono di speranza per la storia travagliata dei nostri tempi.
*Cardinale