Rimanere in Lui, accettare la potatura
Nel discorso di Gesù dopo l’ultima cena Gesù insiste su quello che è essenziale per i suoi discepoli. E’ un discorso? È più bello immaginarlo una confidenza: agli amici, prima di partire per il compimento della sua missione, un ultimo messaggio, non diverso da quello che ha già insegnato, ma più insistente, e, in certo modo, più intimo. Il simbolo della vite illumina il rapporto di intimità che intercorre tra la Chiesa e il Cristo: Egli è la vite e noi siamo i tralci. Ossia, siamo innestati e inseriti nel flusso della linfa divina. Siamo organicamente suoi. E Cristo, la «vera» vite, stabilisce rigorosamente le condizioni della fecondità. Due, essenzialmente: rimanere in lui, accettare la potatura.
Rimanere in Lui. Il tralcio deve essere unito alla vite: tu devi essere unito a Gesù. L’adesione a Cristo è essenziale per la fecondità dei frutti: per ben sei volte viene ripetuta l’espressione «in me». Per il germoglio e il crescere della fede è fondamentale «rimanere» in Cristo. La grazia divina è alla radice delle nostre opere buone, ma non sostituisce la decisione umana della fede, che è anch’essa alla radice della nostra salvezza. Se manca questa continua osmosi di vita col Cristo, la vita si inaridisce, le azioni diventano meccaniche, le espressioni religiose sono vuote, la freddezza del cuore e la secchezza della coscienza ci imprigionano. A chi non rimane in Cristo non è che si concedano solo risultati modesti, limitati, parziali. A chi si stacca dal Tutto, non viene concesso nulla. Gesù lo dice con chiarezza: «senza di me non potete fare nulla»; Invece, «chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto».
Accettare la potatura. Discorso difficile, quello della potatura. L’operazione dolorosa non viene risparmiata a nessuno. Precisamente chi porta già frutto viene sottoposto alla potatura, perché possa dare di più: ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto. Le prove, gli ostacoli, le persecuzioni, le croci non le scelgo da me, né arrivano quando le prevedo io e «da dove» mi aspetterei. Il Padre mio, il vignaiolo, ogni tralcio che porta frutto lo pota, dice Gesù. «Le mani di Dio sono mani ora di grazia ora di dolore, ma sono sempre mani di amore» (Dietrich Bonhoeffer).
Questo «trattamento» spiega tutto e costituisce, in una prospettiva di fede, l’unica chiave per leggere il significato e la fecondità della missione del’apostolo. La potatura è un «tagliare», un «essere feriti», un «perdere qualcosa di noi o delle cose nostre». La potatura è necessaria, perché il frutto della vite sia buono e abbondante. Ecco perché la «potatura» – sofferenze, preoccupazioni, incomprensioni, rifiuti, obbedienze difficili, ecc. – non viene risparmiata a coloro che fanno bene il loro dovere e hanno all’attivo risultati apprezzabili e vivono con impegno il loro servizio. Così, anche le critiche rivolte alla Chiesa, a volte dure e graffianti, non sempre possono essere liquidate come espressione astiosa di gente prevenuta, che non ama Cristo. E se, invece di arrabbiarsi e rispondere per le rime, noi prendessimo le critiche come richiamo ad una maggiore coerenza , come sottolineatura delle nostre responsabilità di cristiani, come occasioni preziose per pregare più spesso e intensamente per i peccatori e, in genere, per le persone lontane dalla fede, come ha fatto Gesù, che sul Calvario pregava per i suoi crocifissori?
Non lo dimenticare: per una buona vendemmia, condizione indispensabile è rimanere in Cristo e accettare la potatura.
*Cardinale