Il pastore che offre la sua vita per noi

Nel brano del Vangelo di Giovanni di questa Domenica il discorso di Gesù è centrato su quel buon pastore, che per due volte Gesù si autoproclama di essere: Io sono il buon pastore. La parabola, per quanto realisticamente raccontata, riceve tutta la sua forza d’immaginazione solo in Lui, il Pastore assegnato agli uomini da Dio stesso, come dice il profeta Ezechiele (34,23): «A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: susciterò per loro un pastore che le pascerà, il mio servo Davide. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore».

La parabola è una delle più belle e maggiormente rivelatrici dell’amore di Dio per noi. Forse, oggi che la pastorizia non è più come prima sotto i nostri occhi e la parola «gregge» evoca la docilità incosciente delle pecore ed una sottomissione acritica e sciocca, occorre fare più attenzione per cogliere la bellezza e la profondità del messaggio. «Pastore buono» non va inteso come «pastore mite e tranquillo», ma (secondo il testo greco – «o poimèn o kalòs») come «il pastore bello», dove kalòs (bello) esprime pienezza e splendore del buono, del vero, del giusto.

Per questo bisogna fare attenzione a due contrassegni di questo «pastore», che possiamo chiamare anche «il pastore bello delle pecore.

Il primo contrassegno è la dedizione totale al gregge: il buon pastore offre la vita per le pecore. Questa prospettiva di dedizione sino alla morte è esplicita sin dall’inizio della vita pubblica quando Gesù, parlando con Nicodemo, afferma: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv.3, 14-15). Al mercenario non gli importa delle pecore. Al «buon pastore» importa delle pecore fino al rischio e al dono della vita. Pensa quanto tu gli premi e fino a qual punto Egli ti ama! Egli stesso te lo ha detto, quando, parlando con i discepoli nel Cenacolo, ha esclamato: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv.15,13).

Il secondo contrassegno è la conoscenza reciproca tra pastore e pecore, la cui profondità penetra nel mistero più intimo della vita di Dio. Il «pastore bello delle pecore» conosce le sue pecore una ad una (Gv.10,3). Le conosce per nome. Le conosce nell’intimità. Il «conoscere» biblico non è qualcosa di intellettivo, ma di sponsale. E’ la penetrazione nell’essere della persona conosciuta, cioè del pieno coinvolgimento esistenziale.  Qui non si tratta affatto di istinto, ma della più profonda conoscenza reciproca, come essa è nell’assoluto dell’amore trinitario…

Se Gesù applica questa suprema conoscenza di amore – ci dice il teologo Balthasar – all’intima reciprocità fra sé e i suoi, egli solleva questa conoscenza molto in alto. E così si fa anche chiaro che il primo aspetto della parabola (dono della vita per le pecore) e il secondo (conoscenza reciproca) si trovano non l’uno accanto all’altro, ma l’uno dentro l’altro: poiché la conoscenza tra il Padre e il Figlio fa tutt’uno con la loro perfetta dedizione reciproca, e perciò anche la perfetta dedizione di Gesù ai suoi e per i suoi implica l’unità di conoscenza e di dedizione della vita del cristiano per il suo Signore.

La dedizione è amore fino al dono della vita: «offro la vita per le pecore», dice Gesù. Ed è un amore che non chiude l’ovile, ma abbraccia tutti gli uomini: ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre, perché si faccia un solo ovile sotto un solo pastore.

*Cardinale