Il tributo a Cesare, una domanda da farisei
Diceva il poeta angloamericano T. S. Eliot che «il pentimento deriva dalla conoscenza della verità». La verità di se stessi, prima di tutto. Fare verità, per poi camminare nella verità, è il primo passo di un cammino di conversione. I farisei, però, sono ben lontani da un simile atteggiamento. Avvicinano Gesù, ma lo fanno attraverso intermediari e con l’intenzione di coglierlo in fallo. Lo chiamano Maestro, e la loro domanda ha parvenza di un atto di fede. Notiamo, infatti, che si rivolgono a Gesù usando parole proprie di una professione di fede: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di nessuno, perché non guardi in faccia a nessuno» (Mt 22,16). In essi, c’è una radicale dissociazione tra cuore e parole. Proclamano verità in cui non credono, mostrano una faccia che non corrisponde all’interiore movimento dell’anima, ai sentimenti, alle intenzioni. Questa divisione, tanto spesso, abita il cuore dell’uomo. C’è il rischio di apparire come non si è: qui è la causa del profondo malessere di tante persone.
Gesù, però, non guarda mai all’apparenza. La traduzione letterale dell’ultimo passo citato è illuminante: «Tu non guardi all’aspetto degli uomini» (Mt 22,16). Gesù va in profondità e vede il cuore dell’uomo, la sostanza delle cose, la profondità della vita.
I farisei fanno precedere la domanda sulla liceità del tributo a Cesare da una lunga frase, all’apparenza molto giusta. Nel cuore, però, nascondono il tentativo di eliminare Gesù. Quanto è importante tornare ad avere una sola faccia! Quell’unico sguardo sulle cose, quella semplicità che non ha bisogno di edulcorare il discorso né di assoggettarsi ad alcuna realtà che non sia quella dell’amore. Gesù insegna ad essere semplici. Ad avere uno sguardo limpido su se stessi e sugli altri. A custodire e dire parole autentiche. «Due sono le cose che i bambini dovrebbero ricevere dai loro genitori: le radici e le ali» (J. W. V. Goethe). Il Signore, come Padre e Madre, ci sostiene quando, nella vita, cerchiamo radici solide e ali per volare. E ci indica la via della liberazione del cuore. La virtù «è ciò che si fa con passione; vizio è ciò che non si riesce ad abbandonare per via della passione» (S. Agostino). La via della semplicità, allora, richiede tanta passione per la vita.
Dopo il lungo preambolo, i farisei domandano: «È lecito, o no, dare il tributo a Cesare?» (Mt 22,17). Anche noi abbiamo, spesso, molte domande moralmente importanti, che poniamo al sacerdote, agli amici, alla comunità cristiana. Chiediamoci, però, se le nostre domande nascano da una ricerca sincera della verità oppure dal tentativo di cullare i nostri egoismi e il nostro egocentrismo. Spesso preferiamo guardare verso l’esterno, per paura di scoprire in noi fragilità, paure, incoerenze, incapacità di amare. I discorsi su ciò che è fuori di noi, tante volte, ci mettono al riparo dalla scoperta delle nostre fragilità e ci sviano dal cammino verso una presa di coscienza di chi realmente siamo.
Gesù, che conosce la malignità dei farisei, li pone davanti alla doppiezza del loro cuore e li chiama «ipocriti». L’ipocrita (dal greco hypokrìnein, recitare una parte) era, nell’antica Grecia, l’attore. Pur chiamandolo Maestro e pur affermando «che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità» (Mt 22,16), i farisei non sono nella verità. Gesù li mette in guardia da questo atteggiamento di falsità, che inganna e a volte conquista gli uomini ma non resta nascosto a Dio. C’è, dentro ognuno di noi, una realtà che è più profonda delle parole, perché è prima di esse, o forse le supera: è la verità di noi stessi, fatta dell’intenzione del cuore, dei sentimenti, dei desideri.
Gesù risponde ai farisei: «Mostratemi la moneta del tributo». E poi: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Rispondono: «Di Cesare» (Mt 22,19-20). Se, dunque, nella moneta è impressa l’immagine di Cesare, a lui è dovuto il tributo. Ma se nell’uomo, invece, è impressa l’immagine del suo Creatore, a Lui egli deve il dono di tutto se stesso. In Lui solo troverà la verità di sé. La sua libertà. Gesù, dunque, non contesta l’autorità umana e la sua sfera di azione, ma riporta l’uomo e la donna alla loro vocazione originaria: la chiamata all’intimità di Dio. Solo nel riconoscersi figlio di questo Dio, l’uomo ritroverà la via della libertà vera e della gioia profonda che si realizza e si manifesta nell’«operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza» (1 Ts 1,3). Perché Dio «è davvero nostra madre, allo stesso modo in cui egli è nostro padre» (Giuliana di Norwich).
Suor Mirella Caterina Soro