L’amare definisce l’uomo
1. Marco ama annotare la predilezione di Gesù per gli incontri personali, con l’emorroissa al di là dell’anonimato della folla (Mc 5,31-32), con l’uomo ricco e con il cieco Bartimeo al di là delle condizioni sociali (Mc 10.21.51-53), con chi lo attornia al di là del clan parentale (Mc 3,31-35), con uno zelota di nome Simone (Mc 3,18; Lc 6,15) e di un pubblicano di nome Levi (Mc 3,14) al di là delle appartenenze politico-religiose. Infine, come riferisce il brano evangelico di oggi, con uno scriba verosimilmente fariseo al di là del movimento di cui egli fa parte. A segno di un Dio a cui premono relazioni ravvicinate con soggetti puntuali inevitabilmente situati, ma mai identificati con la loro collocazione.
Il «tu» è sempre oltre e sempre altro le sue appartenenze, aspetto chiaramente sottolineato dalla pagina evangelica: «Si avvicinò a lui uno degli scribi». Uno, un singolo, un fuoriuscito dall’accostare Gesù secondo il sentire proprio del gruppo di appartenenza, da non temere di riconoscere pubblicamente che Gesù ha risposto bene ai sadducei a proposito della resurrezione dai morti (Mc 12,18-27), e da aspettarsi da lui una risposta altrettanto sapiente sul quesito che sta per porgli (Mc 12,28). Illuminazioni sempre attuali circa il rapporto coscienza individuale-coscienza di gruppo, con un invito a riconoscere il primato della prima per non essere ridotti a ingranaggi del collettivo, qualunque esso sia, e non a «tu» unici, irripetibili e indisponibili a non vagliate logiche di gruppo resi capaci di distanza critica di ogni sistema fino a fuoriuscirne, costi quello che costi. In nome certo di discernimenti evangelici ma altresì dell’interrogazione dei propri fiuti profondi, secondo l’esplicito insegnamento di Gesù: «E perché non giudicate da voi stessi ciò che è buono?» (Lc 12,57). Sia Gesù che lo scriba concordano nel non identificare il soggetto con il distintivo di appartenenza e invitano il soggetto a non affogare nei suoi distintivi.
2. Torniamo alla pagina evangelica. L’apertura disponibile dello scriba permette lo svolgersi in serenità di un dialogo su una questione decisiva: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?», quale il più grande? Comandamenti che domandano, come suggerisce il loro numero di 613, la somma dei giorni dell’anno e delle parti del corpo allora conosciute, osservanza tutti i giorni dell’anno con tutto il coinvolgimento del proprio corpo, del proprio essere. Questione decisiva perché si tratta di dare il nome al comandamento primo che fonda, sostiene, unifica e orienta tutti gli altri; davvero unico nel suo sussistere alla molteplicità di norme di fatto datate, limitate e passeggere, semplici riflesso e traduzione storica del nucleo permanente a ogni mutazione. Domanda pertanto radicale per una risposta articolata in due momenti, la puntualizzazione di che cosa comanda il rapporto con Dio, che cosa lo determina e lo invera, e che cosa il rapporto con l’uomo. Che cosa? L’amore e solo l’amore come recita, in rapporto ma Dio, il «Credo» di Israele, l’«Ascolta» (Dt 6,4-5), e come recita, in rapporto all’uomo, il libro del Levitico (Lv 19,8).
Gesù ricorda al suo interlocutore ciò che egli già sa, come testimonia la sua controrisposta: «Hai detto bene,Maestro,e secondo verità» (Mc 12,32), che gli merita l’elogio di Gesù: «Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: Non sei lontano dal regno di Dio» (Mc12,34). Siamo al cospetto di un sapere nato da un orecchio attento alla lezione dello «Sta scritto», vita ben fondata, radicata e orientata è quella che poggia e che obbedisce alla legge dell’amore, un amore inclusivo dio e il prossimo. Un amore che in riferimento a Dio si connota per il vocabolario della «totalità»: con tutta l’energia della propria mente, l’amore pensato, del proprio cuore, l’amore appassionato, e delle proprie forze, l’amore tradotto con corpo. L’essere nella sua integrità è coinvolto nell’atto di amore verso il suo Dio. Un amore poi che in riferimento al prossimo si connota per il suo «prolungamento»: «Amerai il tuo prossimo come te stesso», prolungherai verso l’altro la cura che hai per il tuo bisogno di pane, di affetto, di cultura e di ragioni alte e caste di vita: «Non c’è altro comandamento più grande di questi due» (Mc12,31), inscindibili da costituire un tutt’uno. Non c’è culto gradito a Dio superiore alla accoglienza e alla osservanza (Mc 12,33; Os 6,6) della ragione che unica rende sensato, buono e bello il cammini dell’uomo, l’amare.
3. Di fatto nella esperienza cristiana Amore è il nome di Dio (1Gv 4,8), sacramento e irradiazione di Dio amore è il nome di Cristo (1Gv 4,9), amato è il nome dell’uomo (1Gv 4,10), amare come amato da Dio in Cristo il suo compito (1Gv 4,11; Gv 13,34) e amato per sempre il suo destino (1Gv 3,14). Così Dio amore in Cristo amore definisce la verità dell’uomo in termini di amore; intelletto, affettività e corporeità sono ancelle al servizio di una «ragion d’amore» tradotta il liturgia del cuore e pubblica in rapporto a Dio e in compassione attiva in rapporto al prossimo.