I farisei? Siamo noi quando parliamo e poi non facciamo

Letture del 25 settembre, 26ª domenica del Tempo ordinario: «Se l’ingiusto desiste dalla sua ingiustizia, egli fa vivere se stesso» (Ez 18,25-28); «Ricòrdati, o Dio, del tuo amore» (Salmo 24); «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,1-11); «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,28-32)a cura della COMUNITA’ DI SAN LEOLINO

Con l’avvento e l’oligarchia dei media, il numero dei brillanti parlatori è aumentato notevolmente con il grande rischio di fermarci sulle parole, sui discorsi e non sulle azioni reali. Così, è diventato facile inebriarci delle grandi parole, persuaderci che con queste cambieremo il mondo, mentre in realtà ci accontentiamo solo di sognare ad occhi chiusi. Anche i cristiani, forse per effetto di questa cultura quasi onnipotente delle parole e dei discorsi, anzi delle opinioni personali, rischiano sempre di sperimentare in loro stessi quel divorzio tra Vangelo e vita tanto lamentato, a suo tempo, da Paolo VI.

È la situazione che proprio il profeta Ezechiele, nella prima lettura di questa domenica, mette davanti a Israele: negli anni convulsi che avevano preceduto la distruzione della città e la deportazione del popolo in esilio (587 a.C.), non aveva esitato a denunciare coloro che, sicuri della protezione di Dio verso il suo popolo, commettevano ingiustizie e peccati che andavano di fatto contro Dio. Anche Gesù, nel Vangelo di oggi, denuncia questa gravissima ipocrisia sempre in agguato nello stile di vita di un credente. «Quando Gesù parlava, i suoi interlocutori erano i farisei. Ma oggi i suoi interlocutori siamo noi», ha scritto il biblista Bruno Maggioni, e ciò significa che dobbiamo parlarci chiaro ossia cercare con umiltà e chiarezza quello che Gesù vuole. In effetti, le persone che esercitano un servizio religioso sono le più esposte ad essere criticate o derise per la loro incoerenza. Ed è inutile illudersi: l’uomo di oggi, troppo abituato a fiumi di discorsi, non fa una grande fatica a individuare le motivazioni, segrete o appena percepibili, che spingono le persone alla parola o all’esortazione spirituale. Per evitare la critica o l’irrisione, il cristiano non ha altra scelta che quella di vivere sempre alla presenza di Dio e parlare a Lui prima che agli uomini, anche quando deve pronunciare un discorso o un’omelia. Di fatto, la competitività o il narcisismo sembrano regnare sovrane in troppi discorsi del nostro tempo, anche religiosi. Così san Paolo ci ammonisce (seconda lettura): «Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso» (Fil 2,3). Ed è quanto ha insegnato Gesù: non basta armeggiare con messali o ascoltare prediche per essere cristiani veri secondo il cuore di Dio. Occorre convertirsi, cioè fare ogni giorno un passo di più nell’allontanarsi dall’egoismo, dalla ricerca ossessiva del consenso altrui, dalla sensualità disordinata. Crescere ogni giorno alla statura di Dio nel servizio umile e paziente.

Ed è significativa la parabola raccontata da Gesù nel Vangelo di questa Domenica. Egli parla del figlio che, all’invito del padre a recarsi a lavorare nella vigna, quasi risponde: «Ma non vedi che sono stanco e che non ce la faccio più?». Ma poi l’amore per il Padre prende il sopravvento e, pur brontolando, egli continuerà a lavorare. È di noi che sta parlando Gesù. Di noi che spessissimo siamo stanchi, quasi depressi per il troppo lavoro nella vigna di Dio e per i pochi risultati che otteniamo. Ma anche con sforzo, se mettiamo Dio al primo posto, meriteremo sempre l’immenso affetto di Dio per noi, come dice Gesù: è questo il figlio che, con i fatti, compie davvero la volontà del padre. Anche se siamo così, Dio ci vuole bene, è contento di noi e ci ringrazia perfino di ciò che facciamo per la sua Chiesa. E non a caso, gran parte del bene che si fa nel mondo, viene compiuto da persone che non stanno bene, che sono stanche, per una ragione o per l’altra. Ma per amore di Dio continuano a farlo. Fino all’ultimo.