Ma la nostra è vera fede?

Letture del 30 ottobre, 31ª domenica del tempo ordinario: «Vi siete allontanati dalla retta via» (Ml 1,14 – 2,2.8-10); «Tienimi vicino a te, Signore, nella pace» (Salmo 130); «Avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita» (1 Ts 2,7-9.13); «Dicono e non fanno» (Mt 23,1-12)

a cura della COMUNITA’ DI SAN LEOLINOIn queste ultime settimane del Tempo ordinario è consolante e illuminante pensare che Gesù, ormai al termine della sua missione sulla terra, insista sul senso e sul significato della vera fede. Tema di riflessione tutt’altro che scontato, anche ai nostri giorni. Infatti, i testi di questa domenica, dell’antico o del nuovo Testamento, sono assai duri verso coloro (e noi possiamo essere tra questi) che amano illudersi di vivere la fede saltando, per così dire, a piè pari l’impegno che essa chiede alla nostra vita più intima, e cioè l’impegno di una radicale coerenza tra ciò che pensiamo e ciò che siamo. Almeno come tensione interiore.

Non sorprende, allora, che molti nostri contemporanei pongano spesso questa domanda: la fede cristiana è oppio o alienazione? No di certo, quando essa viene vissuta sinceramente. Sì, invece, quando, alla resa dei conti, tiene in piedi solo le apparenze. In quest’ultimo caso vengono sviluppati della fede quegli aspetti, di pensiero e di vita, che formano la sua caricatura. Il rischio è, insomma, continuo poiché la tentazione di impossessarsi della fede e di gestirla senza troppi scrupoli minaccia tutti i credenti di ieri e di oggi. Malachia è un profeta del V secolo. Il popolo è tornato dall’esilio, dopo la caduta di Gerusalemme del 587, il tempio è stato ricostruito, ma tutto il culto si esaurisce in formalismi.

Lo spirito sacerdotale è in decadenza; la morale sociale, la fedeltà nel matrimonio, sono considerate fuori moda. Malachia cerca di scuotere l’indifferenza dei suoi contemporanei e supplica di ritornare alla religiosità autentica, di combattere il relativismo morale che dilaga dovunque: «Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro profanando l’alleanza dei nostri padri?» (Mal 2,10).

Anche il discorso di Gesù, nel capitolo 23 di Matteo, non esita a mettere in guardia i suoi discepoli dal diventare simili ai farisei che, con la loro condotta, hanno messo fuori strada il popolo di Dio. Così traccia un quadro vivo e impressionante del comportamento dei farisei: parlano e non fanno quello che insegnano; cercano la purezza rituale, ma il loro cuore è pieno di menzogne e di ambiguità; cercano l’ammirazione della gente invece di quella di Dio. Ma Gesù non si limita a delineare il quadro fosco e inquietante di ciò che significa una fede senza vita e senza vero amore per Dio. Ed è a questo punto che Egli traccia il profilo del suo vero discepolo, anzi di colui che dovrà presiedere una comunità cristiana. Il discepolo è il servo dei suoi fratelli. Più riceve incarichi grandi, più deve sentirsi servo degli altri poiché lui stesso, il Verbo di Dio, ha riservato per sé l’ultimo posto! Anche il suo discepolo deve cercare l’ultimo posto: egli sa che chi si innalza sugli altri sarà abbassato, mentre Dio innalzerà chi si abbassa.

Paolo (seconda lettura) non esita così a presentarsi come il vero discepolo di Gesù. Egli ha avuto la missione di fondare molte comunità cristiane, ma i cristiani di Tessalonica sono testimoni che egli non è stato per loro un dominatore o un padrone: li ha amati con la delicatezza di una madre, li ha nutriti con la parola di Dio, ha affrontato per loro ogni fatica.

Nella Chiesa di Dio, dunque, siamo tutti fratelli e sorelle, tutti servi gli uni degli altri. Se Dio ci dà un qualche dono particolare, non è per farne orgogliosa ostentazione, ma perché lo mettiamo umilmente a servizio di tutta la comunità ecclesiale. Come Maria, noi tutti annunciamo e viviamo un Dio umile e misericordioso.