La nostra patria definitiva è il cielo
L’Ascensione non ci invita a restare con gli occhi rivolti verso il cielo (per gli antichi in alto, nel cielo appunto, stava Dio; sotto terra, il diavolo; e la terra era considerata il luogo proprio dell’uomo; non si tratta quindi del cielo astrale, ma del «mondo di Dio», quando parliamo di «cielo» nella Scrittura); ci orienta invece verso la vita della Chiesa nella storia. Da allora noi siamo i testimoni del Cristo morto e risuscitato (Vangelo); testimoni e inviati di un regno che non sarà che celeste, ma del Regno già inaugurato dal Cristo risuscitato. Questo Regno non ha una capitale geografica o un esercito; è presente là dove un cuore e un’esistenza si aprono all’azione dello Spirito Santo, alla presenza operante di Dio, che è amore.
Mistero di fede, l’Ascensione è anche il mistero di speranza: il Cristo è entrato vivente e pienamente nel Regno dei cieli; noi lo raggiungeremo là un giorno. Il Salmo acclama al Signore che sale al cielo, come preludio alla nostra propria elevazione. È la prefigurazione del nostro destino eterno. E noi, nell’attesa che si compia la beata speranza del suo ritorno, viviamo la missione di annunciare, in opere e parole, la Buona Notizia dell’amore del Padre per tutti. Ogni gesto di carità nella verità fa guadagnare a noi e al mondo una piccola tappa del lungo cammino verso la pienezza del Regno. Bisognerà ricordarci che la nostra patria definitiva è il «cielo», che cioè non abbiamo qui una dimora definitiva. Nella «dinamica del provvisorio», come la chiamava frére Roger di Taizé, abbiamo la gloriosa missione di lasciar trasparire la speranza che ci abita.