Gesù a servizio dell’umanità

Lettura del 29 ottobre, domenica XXX del Tempo ordinario B: «Fra di essi sono il cieco e lo zoppo» (Gr 31, 7-9); «Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse:…Tu sei sacerdote in eterno» (Eb 5, 1-6 ). «Che vuoi che io ti faccia? E il cieco a lui: Rabbuni, che io riabbia la vista!» (Mc 10, 46-52).

DI BERNARDINO BORDOLe letture di quest’ultima domenica di ottobre inquadrano la persona del Salvatore in uno dei gesti che la caratterizzano nella sua straordinaria umanità. Apre il quadro la predizione con cui il profeta Geremia assicurava gli esuli d’Israele che sarebbero tornati dall’esilio babilonese perfino gli inabili, cioè i ciechi, gli zoppi (prima lettura).

Questa premura di Dio per le necessità degli uomini, viene colta dall’autore della Lettera agli ebrei sull’orizzonte del sommo sacerdozio, non appartenente a Gesù, come membro della tribù di Giuda, ma in forza di una misteriosa decisione dell’Eterno che lo costituiva tale «secondo l’ordine di Melchisedech», re arameo, estraneo al popolo ebraico (seconda lettura).

Marco, che ci fa da battistrada, in queste rivelazioni del mistero messianico di Cristo, inquadra il Salvatore, in uno dei momenti più toccanti della sua opera di salvezza (terza lettura).

Osserviamo qualche dettaglio, perché e qui che Marco impegna tutta la sua capacità espressiva: arcaica negli stilemi, immediata nella ripresa dei vari particolari. Lo seguono i discepoli, cioè apostoli, discepoli e cooperatrici, come già abbiamo precisato in altra occasione. Oggi è presente anche «molta folla», dietro a lui. L’evangelista deve dirci che ai margini di quella strada, appena fuori Gerico, c’era a sedere un cieco, a chiedere l’elemosina. Di questo cieco deve darci anche il nome aramaico Bar Timeo, e spiegarci che va tradotto figlio di Timeo. Sempre in aramaico, ci ha conservato anche il titolo usato dal cieco per implorare l’interessamento di Gesù: Rabbuni. Stavolta non ce lo traduce, ma Rabbun è Rabbì con particolare venerazione. Con la «i» enclitica vuol dire «mio», in senso affettuoso.

Ma più che tutto questo, è toccante il modo con cui Gesù opera il prodigio, in terra di Giudea, cioè nell’area a lui più ostile. Il cieco ha implorato; ma nessuno gli ha dato ascolto, intenti come sono a seguire e ascoltare il Maestro di Nazareth. E quello ad insistere. Toccò a Gesù di fermarsi e imporre ai discepoli: «Chiamatemelo!» eppoi di lasciare al richiedente la scelta del favore. Chiederla ad un cieco? Poteva chiedere denaro, divertimenti? Un cieco non può che chiedere la vista. Quello la chiese e lui gliela diede di nuovo (non era nato cieco!). Era stata la sua fede, secondo Gesù, a salvarlo.

L’episodio marciano merita un’attenta riflessione, che infonda tanta fiducia nell’assistenza premurosa del Signore verso ciascuno di noi. È lui che finge amabilmente di non sapere cosa chieda il cieco, per stimolare alla fiducia. Alla fine gli spiega: È stata la tua fede a salvarti, per sollecitare anche la nostra. Noi chiediamo; ma sempre con una certa diffidenza che a Dio non interessino molto certe nostre piccolezze. Al contrario, Gesù ci ha spiegato che il Padre si prende cura anche di un capello, non solo di un occhio di Bartimeo! Di un capello, perché gli antichi ebrei lo consideravano cosa da nulla, e riprovevoli coloro che perdevano tempo con acconciature e simili (lo sa Maddalena, che, appunto, in aramaico, significa «pettinatrice»!…).