La resurrezione di Gesù è il fondamento della speranza
Letture del 6 aprile, terza domenica di Pasqua: «Non era possibile che la morte lo tenesse in suo possesso» (At 2,14.22-33); «Mostraci, Signore, il sentiero della vita» (Salmo 15); «Siete stati liberati con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza macchia» (1 Pt 1,17-21); «Lo riconobbero nello spezzare il pane» (Lc 24,13-35)
DI MARCO PRATESI
Nel discorso immediatamente seguente la Pentecoste, Pietro fa numerosi riferimenti all’Antico Testamento. Pietro (o, se preferiamo, Luca) mette in luce una continuità nel piano di Dio, una unità del suo progetto. Per limitarci alla pericope liturgica odierna: nel salmo 16 Davide parla non di sé ma del Messia e della sua risurrezione.
Quando si legge la Bibbia occorre tener presente che il discorso di Dio, dalla Genesi all’Apocalisse, è uno. La fede dei patriarchi, dei profeti, di Davide è dunque la nostra (e viceversa)? Certo. Non solo i Padri della Chiesa ne sono (di certo) convinti, ma anche gli Apostoli, anche Pietro, anche Paolo. Per loro, ebrei, non c’è contrasto tra la loro fede ebraica e la loro fede in Gesù. Riconoscendo in lui il Messia essi non pensano affatto di cambiare religione. Credono invece che in lui si sia realizzata la promessa fatta ai padri, la loro speranza. Questo non toglie che l’Antico Testamento conservi una sua consistenza anche senza riferimento a Cristo, sia per un ebreo (non cristiano) che per un cristiano che voglia esplorare il senso nativo del testo. Così, per restare al nostro brano, certamente il Salmo 16 (salmo responsoriale) offre una speranza che mantiene un suo interesse anche senza relazione a Gesù. Ma Gesù rimane, scoperto o meno, il fondamento sul quale tale speranza si basa; o, se si preferisce, il suo vertice; o anche: il suo cuore. Può capitare di non scorgere questo fondamento, ma solo quanto su di esso sta; nondimeno il fondamento è là, e senza di esso quella speranza sarebbe infondata, o comunque meno fondata.
La fede cristiana nasce dall’interazione di questi due poli: l’esperienza degli Apostoli e la Scrittura ebraica. Questa ha permesso di cogliere la portata della Pasqua di Gesù, e a sua volta si è illuminata di senso nuovo proprio nel confronto, anche duro, anche scioccante, con essa. I due poli vanno tenuti insieme, nella chiara consapevolezza che la vicenda di Gesù si spiega nel confronto con l’Antico Testamento e che questo prende il suo senso ultimo solo alla luce di quella.
Si perde questa chiarezza sia nella tendenza, propria di certo Cristianesimo «moderno» ma poco illuminato, a contrapporre l’Antico al Nuovo Testamento; sia in quel «rispetto» alla fede ebraica, per il quale l’adesione a Gesù come Messia è al più una delle possibili opzioni: non si vuole «scippare» all’Ebraismo le proprie Scritture cristianizzandole. È curioso che tale volontà di «tutela» delle Scritture ebraiche arrivi allo stesso risultato della loro svalutazione: la separazione dei due Testamenti. Le conseguenze per la fede cristiana sono devastanti (orripilanti alcune «proposte pastorali» sulla prima lettura nella Messa e sulla preghiera dei Salmi): la sua riduzione a gnosi, e la perdita della centralità e unicità della Pasqua di Cristo. Sia allora lecito dirlo con parresìa, ovvero senza peli sulla lingua: Gesù, il crocifisso risorto, è il Messia Salvatore di tutti (cf. At 2,36).