Ogni generazione è lontana da Dio

Letture del 13 aprile, 4ª domenica di Pasqua: «Ecco, noi ci rivolgiamo ai pagani» (At 13,14.43-52); «Noi siamo suo popolo, che egli guida» (Salmo 99); «L’agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita» (Ap 7,9.14-17); «Alle mie pecore io do la vita eterna» (Gv 10,27-30)

DI MARCO PRATESI

«Salvatevi da questa generazione perversa!» (v. 40). La generazione a cui Pietro si rivolge è ogni generazione, che nasce in qualche modo «storta» (questa la parola greca). Perché? Nel contesto è chiaro: quella generazione ha crocifisso il Messia, che Dio ha invece esaltato (v. 36). Più storta di così! Ha rifiutato e umiliato colui che Dio ha amato e glorificato. In questa scelta sbagliata «precipita», si concentra ogni dissenso e contrasto fra le vie di Dio e quelle umane (cf. Is 55,8).

gni generazione, tutti noi, siamo storti, in quanto discordanti e lontani da Dio. Senza bisogno di entrare nel campo della mistica, lo si può tranquillamente affermare: ogni generazione crocifigge il Messia. Quali sono i nostri criteri di scelta, quali le nostre vie? Non si sfugge. I criteri mondani portano a crocifiggere il Cristo, in qualunque modo egli si presenti: «via, toglicelo di torno, crocifiggilo» (cf. Lc 23,21). L’esame più severo e rivelatore è l’atteggiamento nei confronti di chi non conta, non ha nulla da darci e da opporci, di chi è in qualsiasi modo «povero».

In questo senso non è molto importante stabilire a chi precisamente vada attribuita la responsabilità della morte di Gesù, e non ha senso imputare agli Ebrei il «deicidio». Ognuno di noi potrebbe essere al posto di ognuno dei protagonisti della passione, dai soldati a Giuda. Essi sono in qualche modo rappresentati dell’umanità intera, incapace di accogliere la novità sorprendente di un Dio che si manifesta così. Non è quello che ci accade, forse ogni giorno?

Accorgersi di questa stortura non è scontato, non è farina del nostro sacco, ma dono, che nel testo di Atti è detto così: «si sentirono trafiggere il cuore» (v. 37, più semplicemente: «furono trafitti al cuore», «ebbero il cuore trapassato», Vulgata: conpuncti sunt corde). Avere il cuore trafitto è dono dall’alto. «Trafitto da un raggio di sole», dice il famoso verso di Quasimodo, ed è ben qui il caso, ma di un sole che è a sua volta il cuore trafitto del Cristo risorto. La devozione al Sacro Cuore è probabilmente ben più che una semplice devozione.

La tradizione cristiana ha chiamato questa esperienza, ma la parola italiana risulta piuttosto depotenziata, «compunzione». È dono essenziale, non per deprimerci o umiliarci, ma per scoprire fino a che punto siamo amati e perdonati. È dono, spesso legato a quello delle lacrime, che esercita una critica severa nel confronti di un cristianesimo sia cerebrale che sentimentalistico, i quali, entrambi, sono alla fin fine alienanti perché sganciati dalla vita.

In questa crogiolo muore l’orgoglio e nasce la docilità: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (v. 37). Questo: lasciarci battezzare nel Nome di Gesù, ovvero immergere nella sua misericordia, accogliendo in essa il dono del suo Spirito, salvezza alla nostra stortura.

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