La missione vuol dire regalarsi

15 giugno, 11ª domenica del Tempo ordinario: «Sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,2-6); «Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida» (Salmo 99); «Se siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,6-11); «Chiamati a sè i dodici discepoli, li mandò» (Mt 9,36-10,8)

DI MARCO PRATESI

Il Vangelo ci parla oggi di missione: chiamati a sé i dodici, Gesù li mandò. Tema attuale: nel magistero pontificio e in molte chiese locali si sottolinea oggi la necessità e anzi l’urgenza della missione. Vorrei sottolineare due aspetti. Primo: il «titolare» della missione è il Padre. È lui il padrone della messe, ed è lui che ci manda gli operai a lavorare. Certo, costatiamo con apprensione che «la messe è molta ma gli operai pochi». Notiamo tuttavia la reazione di Gesù: «presto, troviamo subito più operai, organizziamo una campagna d’informazione e sensibilizziamo, creiamo una rete di contatti… Ah, no: pregate il Padrone». L’unica cosa da fare è dunque pregare? No, ma non dobbiamo dimenticare che il Padrone è lui. Al centro della missione c’è il Padre e non noi, nemmeno come Chiesa. Altrimenti la missione diventa un’attività umana, a quel punto affannosa, agitata, con l’acqua perennemente alla gola, acqua di un mondo che sembra non volerne sapere di Dio e meno ancora della Chiesa. Ansia, scoraggiamento, tristezza sono caratteristiche di qualsiasi missione che abbia perso il senso del primato del Padre. Quali frutti può portare una simile missione? «Percorrete mare e terra per fare un convertito; fatto che sia, lo rendete figlio della geenna il doppio di voi» (Mt 23,15).

In concreto – secondo punto – per mantenere il Padre al centro, la missione deve essere vissuta nella gratuità: «avete ricevuto gratuitamente, date gratuitamente». La regola è data dall’agire del Padre. Il missionario è prima di tutto uno che ha ricevuto un regalo, uno che ha trovato la perla preziosa, il tesoro nel campo. Questo è scontato? La missione consiste nel dare segni della gratuità di Dio, e ciò può accadere solo regalando. Diversamente, diviene interessata. Non solo a vantaggi economici: all’autoesaltazione, individuale (quanto sono bravo) e comunitaria (siamo tanti, siamo forti).

«Possa il mondo del nostro tempo ricevere la Buona Notizia non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo» (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi 80). Qui la traduzione ci gioca un brutto scherzo: «neque renuunt vitam impendere» diventa «accettino di mettere in gioco la propria vita». Si perde così l’idea del dono: nella gioia del Risorto essi «non rifiutano di spendere la vita». Discepoli del Risorto – colui che si è speso fino in fondo – non sono guidati da calcoli, ma spinti unicamente dall’intima persuasione che spendersi è bello: «regalarmi mi piace». Il Padre è questo. Meta ambiziosa, è innegabile. Ma è vitale, questa gratuità, per realizzare una bella missione.

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