Tutto a tutti
Giobbe nella prima lettura definisce una «milizia» la vita dell’uomo sulla terra, un combattimento senza speranza di vittoria. L’uomo non è un signore, ma un «servo sitibondo di ombre», non un datore di lavoro (questi è Dio), ma un «mercenario». Questa è una caratteristica universale della transitoria vita umana.
Cristo e il suo apostolo non hanno nulla da ridire contro questa descrizione della vita umana. Solo che l’«inquietudine», di cui parla Giobbe, è trasformata nel Nuovo Testamento in zelo indomabile e lavoro per Dio e per il suo Regno, sia che ciò avvenga mediante l’azione esterna o con l’impegno della preghiera. Anche la preghiera appunto è indispensabile per l’umanità affinché sappia difendere la sua via verso la libertà, che è quella di distinguersi dagli animali e di avvicinarsi agli angeli.
Egli non viene come il grande padrone, che è nel possesso della verità , ma come lo schiavo al servizio di tutti. Dice (nei versetti qui citati) d’essere schiavo degli ebrei, di trasferirsi nella loro mentalità per parlare ad essi del Messia, d’essere schiavo dei pagani per annunziare loro il Salvatore del mondo, e infine (così continua la lettura) d’essere anche schiavo dei deboli (benché stimi se stesso come un forte) per guadagnare se possibile anche i poco intelligenti, gli eternamente indugianti, i mutevoli d’animo.
Non viene lasciato fuori nessuno: «Mi sono fatto tutto a tutti!», e questo non nella sicurezza di aver già parte alla promessa del Vangelo, ma nella speranza di partecipare egli pure a quanto annuncia agli altri.