Il desiderio di luce del cieco di Gerico

DI GIACOMO BABINI Vescovo emerito di Grosseto18 ottobre, 30ª domenica del Tempo Ordinario. La luce della fede è indispensabile per seguire gli esempi di Cristo. Il cieco di Gerico è l’esempio di colui che, ottenuta la vista, sfrutta subito la nuova possibilità e si mette in cammino dietro  a Gesù.  Le altre due letture chiariscono meglio  il concetto di discepolo. Cristo è la verità unica e solo seguendo Lui si fa «ritorno alla casa» del Padre. (Nelle chiese che non hanno un giorno stabilito per festeggiare la loro dedicazione, in questa Domenica celebrano la Messa della Dedicazione, al posto della XXX  Domenica del Tempo Ordinario) Vangelo: «Mio Signore, vorrei poter vedere»L’episodio così vivacemente descritto da Marco, del mendicante cieco all’uscita di Gerico è percorso da un unico motivo: poter vedere. L’uomo sente che Gesù sta passando con una gran folla e intuisce la sua occasione irripetibile. Perciò il suo grido ripetuto più volte e sempre più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Con la sua implorazione al «Figlio di Davide» (espressione presente in tutti i tre Sinottici) egli intende rivolgersi ad un profeta o ad un taumaturgo (cfr. Mt 9,27; 15,22). La gente cerca bruscamente di farlo tacere. Ma Gesù si ferma, gli comanda di accostarsi e gli domanda che cosa vuole. Ed ecco la domanda unica, assoluta: poter vedere! Il suo desiderio di luce è una delle cause per cui Gesù gli accorda la guarigione, dopodiché diventa possibile al non più cieco, mettersi per la strada dietro di Lui.  Questa sequela mostra che il desiderio della luce è qualcosa di elementare e di essenziale: desiderio della via giusta, che  il cieco non riesce a vedere, desiderio della via che porta a Dio per tutti noi, la direzione e i gradini della quale bisogna prima vedere per potervisi infilare. L’escluso dalla luce,  dopo avere incontrato e supplicato Cristo  può trovare  la via di casa. I Lettura: «Io li porto a casa»La prima lettura descrive il ritorno a casa degli Ebrei dall’esilio. Esso comincia «nel pianto», nella cecità, che grida verso la luce, ma inutilmente. Tra le consolazioni io li «riporto», affinché essi vedendo trovino la strada, attraverso cui Dio li conduce. È una «via diritta», su cui «non inciamperanno». I ciechi inciampano di continuo, i vedenti possono vedere ed evitare gli ostacoli. Ma qui noi ricordiamo che Gesù si è definito la luce del mondo: «Chi segue me non cammina nelle tenebre, ma ha la luce della vita» (Gv 8, 12). Però poi ecco la delimitazione: «Fin quando sono nel mondo, sono la luce del mondo. Viene la notte, quando nessuno può più agire» (Gv 9, 5. 4). «Chi cammina di notte inciampa, perché gli manca la luce» (Gv 11, 10). Ciò significa: la luce non è in nostro potere, come il sole che tramonta. Il Signore non si sottrae a noi, non tramonta, ma non possiamo tenerlo fermo come qualcosa che ci appartiene, che rientra nel nostro arbitrio. Fin tanto che la seguiamo, la luce divina non si sottrae a noi. II Lettura: «La dignità concessa dal Padre resiste ad ogni prova» Cristo chiama se stesso luce del mondo, ma, come dice il Credo, è lumen de lumine.  Egli non si è preso da se stesso la dignità di sommo sacerdote dell’umanità, ma l’ha ricevuta dal Padre, che sempre opera: «oggi ti ho generato»; egli è mandato dal Padre «ad offrire doni e sacrifici per i peccati». Essendo Egli perciò «capace di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore», perchè anch’egli si è rivestito di «debolezza», avverte i suoi che il suo giorno sulla terra è delimitato e che deve entrare nella notte del dolore per i peccatori. Ma proprio anche in questa notte egli è «sacerdote in eterno», proprio nella tenebra dei nostri peccati irradia, la sua luce suprema. Questa è la sua missione, per cui nello stesso tempo è luce del mondo nell’inferno e nell’oscurità. Colui che lo segue, può sì finire nell’oscurità, che è quella di Cristo stesso. Ma anche in questa oscurità uniti a Lui è possibile non inciampare.