Il risveglio dell’attesa
1) L’«Avvento» nella esperienza cristiana è attesa dell’«evento» apportatore della grande «novità» dei nuovi cieli e di una terra nuova (2Pt 3,13; Ap 21,1-5) oltre l’ingiustizia, il dolore e la morte. Attesa legata alla venuta gloriosa di Colui che, come canta il Prefazio primo dell’Avvento, è già venuto nella debolezza della carne e continua a venire nascosto in una pagina, in un pane e in un povero, a rinnovare il volto dell’uomo e della storia. Egli, il preannunciato dai profeti, il generato da Maria e l’indicato dal Battista. Avvento è pertanto il tempo del risveglio della coscienza ecclesiale al chi e al che cosa attendiamo, è nascita di una singolare figura di umanità i cui tratti iniziano a essere delineati dalla prima e dalla terza lettura di questo inizio di Avvento.
2) Il primo brano, introdotto tardivamente nell’opera di Geremia e debitore del pensiero di Zaccaria (Zc 4,1-4; 6,9-14), esprime bene il concetto di «avvento» nella tradizione ebraica riassumibile nei principi della realtà, della speranza e dell’attesa. Il «non avvento», vale a dire la delusione per il mancato «esodo in loco» dall’ingiustizia e dalla non pace, lo sfondo è dato da Giuda e da Gerusalemme al tempo di Zorobabele, è chiamato dalla voce della profezia a convertirsi in speranza aprendo il presente all’attesa di un «germoglio giusto» in cui le «promesse di bene» di Dio diverranno sì (cfr 2 Cor 1,20) e Gerusalemme, rivestita della sua giustizia, «sarà chiamata: Signore – nostra – giustizia», sua adempiuta icona. L’identico dinamismo lo ritroviamo nel brano evangelico lucano, una iniziazione a come abitare il tempo della catastrofe storica e cosmica, ultima e penultima: in piedi e con uno sguardo verso l’alto resi capaci di cogliere l’oltre della distruzione, il Veniente e la sua liberazione attesi in una vigilanza orante e leggera, non appesantiti e non distratti dal fardello della cattiva relazione con la tavola, con il sesso, con l’avere, con il potere e con il sapere.
3) L’attualità di questo discorso si impone da sola nel tempo, almeno in parte, della «dittatura del presente» recisa la radice dei racconti di senso del passato e orfani della speranza del futuro (M. Augé). La lezione della liturgia è evidente ed è un invito a divenire «umanità dell’avvento» nei giorni del «non avvento»: umanità del no al così stanno le cose, umanità del sì al così saranno le cose secondo la promessa e umanità del coraggio nella tribolazione del divenire già ora segni del nuovo visibile in uomini, donne e relazioni secondo la parola che ascoltano e il pane che mangiano. Questo non privare la terra della possibilità dell’«evento» di cose altre, è amarla. Ma è davvero così o, come scrive Teillard de Chardin, «saremo costretti ad ammettere che non attendiamo più niente. È assolutamente necessario ravvivare la fiamma» del desiderio del Veniente già ora e dare forma all’uomo nuovo e alla nuova creazione nell’attesa sveglia della sua piena fioritura.
Giancarlo Bruni