«Vi lascio la pace, vi do la mia pace»
1. Nei «discorsi di addio» l’evangelista rivisita l’ultima cena con Gesù rileggendola alla luce dell’intera esperienza pasquale e del come la sua comunità vive e deve vivere al momento la relazione con il Risorto. Possiamo dire che è l’evangelista stesso a tavola con i suoi a narrare ad essi che cosa ha significato per lui quel decisivo pasto con un amico di nome Gesù (Gv 15,14-15).
2. Pasto di cui viene rievocata l’atmosfera: da parte di Gesù la consapevolezza della sua ormai imminente uscita di scena (Gv 13,1.33.36; 14,3.30) e da parte dei discepoli il presentimento di perdere l’oggetto del proprio amore e del proprio perché gettati in una angoscia che genera turbamento (Gv 14,1.27), tristezza (Gv 16,6) e scandalo (Gv 16,1). Siamo dinanzi a un senso di «orfanità», di lutto alla cui elaborazione provvede lo stesso Gesù: «Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,1.27), «Non vi lascerò orfani mi rivedrete» (Gv,18-19), «Vado e tornerò da voi» (Gv 14,28). Così l’evangelista ritorna sul passato e può dire al presente il come del ritornare del Maestro e Signore, memore di accenni allora non compresi (Gv 14,20), o velati (Gv 16,29) o non detti (Gv 16,12), ora chiari e aperti (Gv 16,29). Il venuto nella carne (Gv 1,14), il rivisto come risorto dai testimoni oculari, le apparizioni, continuerà nel frattempo della storia a venire presso i suoi e nel cuore dei suoi: «Io in loro» (Gv 17,23), in maniera ineffabile, vale a dire né fisica né psichica ma spirituale. Un venire assieme alla sua parola, al Padre (Gv 15,23) e allo Spirito (Gv 14,15-17) paraclito, cioè «chiamato accanto» a svolgere, nel caso, il compito di maestro interiore, di memore e di esegeta della parola del Signore (Gv 14,26; 16,13-14). Condizione perché questo accada è l’amore verso di Lui e la sua parola accolta e osservata, parola del Padre (Gv 14,23-24) alla cui verità profonda è guida lo Spirito (Gv 14,26). Il messaggio è chiaro e vuole rispondere alle domande del dove il Risorto si rende presente lungo i secoli, presso i suoi, il «dimorare con voi», e nei suoi, «l’essere in voi»; e del come si rende presente, attraverso la «parola letta e praticata nello Spirito». Di questo lo Spirito è costante memoria. Per questa ragione il non vedere più fisicamente Gesù non deve costituire un motivo di rimpianto ma di allegrezza, sia perché ritorna al Padre (Gv 14,28) sia perché invia lo Spirito che lo rende contemporaneo in altra maniera (Gv 14,16-17). E questo vale per la generazione contemporanea di Gesù e per quelle successive.
3. È a ogni assemblea riunita attorno alla mensa della parola che l’evangelista ricorda queste cose risvegliando la coscienza comunitaria e personale a sapersi casa ove l’Amico trova ospitalità e ascolto la sua parola di pace: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv 14,27). Pace come riconciliazione con Dio, con l’altro, con la natura e con la morte, riflesso amico del volto del Risorto al mondo che abitiamo.