Santissima Trinità: quale Dio?
1. «Sbagliarsi su Dio è un dramma, è la cosa peggiore che possa capitarci, perché poi ci sbagliamo sul mondo, sulla storia, sull’uomo, su noi stessi. Sbagliamo la vita» (D.M. Turoldo). E si diviene causa di ateismo: «Per questo – leggiamo nella Gaudium et Spes del Vaticano II – nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la loro fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (n. 19). Nel tempo dei fondamentalismi che generano una identità religiosa esclusiva, escludente e violenta la domanda dell’immagine di Dio e di quale relazione apre con gli altri si impone con urgenza e rigorosità.
2. L’esperienza cristiana a questo proposito è concorde su due punti. Il primo è che il Dio di cui essa parla non è alla portata dell’uomo: «nessuno lo ha mai visto» (Gv 1,18), «abita una luce inaccessibile, che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere» (1Tm 6,16). Egli è in sé e per sé e nei suoi pensieri e nelle sue vie (Is 55,8-9) il Tutt’altro e il Tutt’oltre. Una dimensione, questa dell’alterità di Dio, da recuperare come riserva critica nei confronti di ogni immagine e di ogni discorso su Dio. Quale Dio, appunto? Il generato dalle proiezioni sublimate del desiderio umano, o l’omogeneo alla difesa di ragioni di tipo etnico, socio-politico, culturale e religioso? Il Dio della tradizione cristiana è altro, è oltre, sempre e all’uomo non resta che l’onestà del silenzio, proprio a chi sa di non sapere. Ed è qui che si innerva il secondo punto, non l’impossibile scalata dell’uomo a Dio ma la sua libera e gratuita discesa all’uomo. Un lontano che si è fatto vicino come non mai in Gesù sua immagine (Col 1,15), sua impronta (Eb 1,3), suo volto (Gv 14,9), sua parabola (Gv 1,1.14) e suo racconto-spiegazione (Gv 1,18). Se il cristiano parla di Dio lo fa perché un amico venuto da lontano (Gv 15,15), che dice di conoscerlo (Gv 1,18), glielo ha rivelato.
Ne consegue che il suo Dio è quello reso visibile nella intera vicenda di Gesù secondo l’interpretazione neotestamentaria. E questo Dio in linguaggio metaforico è detto Trinità, e ciò proprio a partire dal come il Gesù dei vangeli legge sé stesso: l’inviato dall’amore del Padre a esserne l’adempiuta manifestazione e il tramite dello Spirito che effonde tale amore nel cuore dell’uomo dischiudendolo a ogni comunione (2Cor 13,13; Rm 5,5). È in questa cornice che va letto Giovanni 16,12-15: lo Spirito ci rende contemporaneo il racconto di Gesù il Figlio, che a sua volta ci rende contemporaneo il racconto del Padre.
3. Racconto di un unico Dio, non tre dèi, che si chiama Padre che ama, Figlio amato e Spirito amore anello di congiunzione tra i due, un Dio «in sé» comunionale e relazionale che «fuori di sé» si è manifestato per quello che è: pazzo di amore per il mondo. Croce e tomba vuota ne sono il segno esterno. Questa è l’immagine alta e pura che i cristiani devono incidere nel loro cuore per una esistenza alta e pura, riflesso del suo amore che non scomunica nessuno e che fa paura a nessuno. Questa è l’icona del divino attesa dall’uomo, è la morte del fondamentalista che è in noi ed è la resurrezione del cristi forme che è in noi.