Alle sorgenti della propria identità
1. Vangelo delle domande essenziali, quelle sulla identità di Gesù e del discepolo. Domande, relativamente a Gesù, che si prolungano di generazione in generazione poste dall’uomo: «Tu, chi sei?» (Gv 8,25), e da Gesù stesso: «Le folle, chi dicono che io sia?» (Lc 9,19), «Ma voi, chi dite che io sia?» (Lc 9,20). Gesù non ha mai definito in maniera esplicita la sua ineffabile identità, il cosiddetto «segreto messianico», piuttosto ha lasciato ai gesti l’interpretazione di sé, e in Luca particolare importanza assume quello della «preghiera». È in un contesto di preghiera che avvengono il battesimo (Lc 3,21-22), l’enunciazione del programma (Lc 4,16s), l’elezione dei dodici (Lc 6,12s), la trasfigurazione (Lc 9,28s), la catechesi sulla preghiera (Lc 11,1s) e la passione-morte (Lc 22,41-43; 23,46). È in un contesto di preghiera che avviene ora la sua identificazione: «Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare e pose questa domanda» (Lc9,18), a cui è già prima risposta il fatto stesso del pregare: quest’uomo si distingue per una peculiare relazione con Dio che denomina «Abbà» – Padre. Una relazione filiale dunque che merita ulteriori approfondimenti a cui lo stesso Gesù provoca i suoi discepoli.
2. «Le folle, chi dicono che io sia?». La risposta che lo colloca nella linea dei grandi profeti del presente e del passato, il Battista e Elia quasi risuscitandone lo spirito (Lc 9,19), è suggestiva ma insufficiente nel senso che Gesù non è «un riconducibile a cose già viste, a parole già sentite» (E. Ronchi). Il suo modo di essere e di porsi lo colloca nell’ordine di una singolare novità, quella proclamata da Pietro che al Gesù che domanda: «Ma voi, chi dite che io sia?», risponde: «Il Cristo di Dio» (Lc 9,20). A cui segue l’ingiunzione del silenzio (Lc 9,21), perché un conto è enunciare esattamente e un conto è capire profondamente. Ne è prova lo stesso Pietro che a più riprese ha dimostrato di non capire la portata effettiva di ciò che aveva professato (Mt 16,22-23), fino all’«antiprofessione di fede» (Mt 26,74), il riconoscere di non conoscerlo. Solo nella croce predetta (Lc 9,22) si avrà la corretta declinazione della messianicità di Gesù, Figlio inviato a rivelare il Padre come passione di amore per coloro stessi che hanno impedito il suo esercitarla condannandolo a morte. Questa la verità che lo identifica, e di lui come Messia parlino quanti esperimentano se stessi come totalmente dediti a prolungare nello spazio e nel tempo la memoria, l’annuncio e la testimonianza di quella filialità. Questa la verità che identifica il discepolo, il chiamato a stare con lui condividendone il sogno e la sorte.
3. Condivisione che detta le condizioni della sequela, dall’iniziale andare a lui al camminare dietro a lui nel rinnegamento di sé e nel prendere la propria croce giorno dopo giorno. Un no a sé stessi a motivo di lui e della sua causa, un perdersi che equivale a salvare la propria vita (Lc 9,23-24. 25-26). Non serve edulcorare i toni di una chiamata rivolta a «tutti», noi compresi, ma di leggere il tutto a partire dalla ragione ultima che lo sostiene: chi e che cosa è il perché ultimo della propria vita che rende penultimo l’io, il clan, l’avere, il potere e il piacere? Se Gesù e il suo Vangelo nasce il discepolo di Cristo, questo è quanto lo identifica al punto che alla domanda: «E voi chi dite che io sia?» risponde: Tu sei il datore di senso al giorno dato a vivere, un esserci riflesso e racconto della tua bontà da non privarne coloro che invano si affaticano per spegnerla. Un esserci appunto messianico – regale che nessun patimento indotto o meno e nessuna tomba possono impedire e imprigionare. Al venire ucciso segue il risorgere il terzo giorno ( Lc 9,22).