Lo statuto della prossimità
1. Per lungo tempo il cammino dell’uomo è stato sostenuto e orientato dal comandamento dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo, al di là delle realizzazioni concrete mai teoricamente contestato. Il nostro presente al contrario, almeno in ampi settori, vive come normale una duplice orfanità: «Dio è morto» (F. Nietzsche) e «Gli altri non sono per noi altro che paesaggio» (F. Pessoa). «La morte del prossimo» (L. Zoja) è un dato di fatto, e con essa l’affievolirsi di una vicinanza custode e l’espandersi di una distanza nell’indifferenza, nel fastidio, nell’inimicizia e nell’incapacità di rapporti viso a viso che non siano mediati da strumenti tecnici. Siamo al cospetto di un dato che non domanda lamentele, moralismo e rimpianti ma consapevolezza del capire, accompagnata dalla responsabilità di conservare viva in e a questo mondo iperindividualista la memoria di legami di prossimità, che generano vita e non oppressione e esistenze depresse a motivo dell’avere represso il sentimento d’amore e di compassione. Memoria che puntualmente la liturgia domenicale rende contemporanea all’udito attraverso l’ascolto della parola e alla bocca attraverso la manducazione della parola.
2. Parola che oggi è proclamazione della radice su cui poggia l’essere umano e da cui l’esistere umano trae direzione, davvero Legge all’uomo: «Ama Dio e il prossimo come te stesso e erediterai la vita» (Lc 10,25-28). Ama e sarai te stesso come persona e come collettività. Ciascuno è chiamato a scoprire la propria ineffabile verità e a divenire progressivamente la propria ineffabile verità, che rendono il giorno dato a vivere bello e buono pur in mezzo alle tribolazioni. Tale verità è innanzitutto un dono, è appunto Legge data, e si articola in tre momenti: «sono amato da Dio dunque sono» (amor ergo sum), «amo dunque sono» (amo ergo sum), «sono amato-amo dunque vivo» (amor-amo ergo vivo). Questa è la segreta verità dell’uomo: un amato inviato ad amare chi lo ha generato e coloro ai quali è mandato. Questa è la radice che dà consistenza, direzione e sussistenza all’essere, questo è vivere, una vita vera che neppure la morte può interrompere, l’amato che ama l’attraversa ereditando l’eternità. Questo dice il dialogo fra il dottore della legge e il Maestro Gesù: nella Legge dono di Dio è la risposta alla domanda sulla via da intraprendere per arrivare ad una vita nel senso che non avrà mai fine. Non si danno al cammino dell’uomo altri sentieri di vita che quello dell’amore: al di fuori dell’amore non c’è salvezza (extra dilectionem nulla salus). E Dio al mondo orfano di amore non invia dita puntate contro, ma cuore e braccia aperti che risvegliano le coscienze alla memoria che sono ancora possibili relazioni d’amore, che è ancora possibile personalmente e collettivamente farsi prossimo a qualcuno colmando il vuoto della distanza.
3. A questo si riferisce la parabola del Samaritano, che è la risposta di Gesù a una nuova domanda del dottore della legge: «E chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29). Domanda da un’unica risposta: tuo prossimo è colui al quale tu decidi di farti vicino provocato dalla sua presenza ferita o comunque invocante. Una prossimità con un preciso statuto riassunto nel Samaritano che è Dio, che è Cristo, che è ciascuno: passare accanto – vedere – aver compassione – farsi vicino – fasciare le ferite – caricare sopra le proprie spalle e prendersi cura in molteplicità di modi senza operare distinzioni, nel caso è uno scismatico samaritano che si prende cura di un ebreo, e senza pensare ch evi possa essere un oltre l’uomo ferito, neppure l’oltre della ritualità religiosa. Cosa non compresa dal sacerdote e dal levita, la creazione che geme interrompe ogni viaggio e dà senso ultimo a ogni viaggio: camminare con un cuore di compassione, che rende veggenti e attivamente vicini al dolore dell’uomo e del mondo. «Và e anche tu fa lo stesso» (Lc 10,37), e Dio e Cristo e la prossimità continueranno a risorgere e a risvegliare nell’orfanità di un mondo a cui farsi accanto nell’amore.