Guardarsi dall’amore per il denaro
1. Il rapporto uomo-beni è da sempre al centro della riflessione umana, e il capitolo «Del retto uso delle ricchezze» accompagna sin dal principio l’esperienza ebraica e cristiana registrata nelle Scritture. Denaro di volta in volta demonizzato, divinizzato – assolutizzato o semplicemente considerato come strumento, sempre tale comunque da costituire un problema. È il caso del fratello minore della parabola che domanda a Gesù di intervenire presso il fratello maggiore in vista di una equa ripartizione dell’eredità. Si usava ricorrere ai rabbini anche per questioni giuridiche in considerazione della loro imparzialità, ma Gesù ritiene di non avere autorità ufficiale a proposito: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?» (Lc 12,14), e comunque il suo compito non si pone nella prospettiva giuridica di solutore di casi ma nell’orizzonte profetico – sapienziale di invito ad andare e a rimandare al cuore delle questioni, per trarne una saggezza di fondo in grado di discernere e di risolvere bene questioni concrete che si pongono. Per questo Gesù si sottrae alla richiesta specifica di «uno della folla» (Lc 12,13) e si rivolge alla folla chiedendole «attenzione» (Lc 12,15), invitandola a guardarsi dentro e a chiedersi come il cuore legge i beni. Da questo dipende il resto, comprese le spartizioni ereditarie. E quel fratello minore e quella folla siamo noi, e quel «fate attenzione» è rivolto a noi.
2. Attenzione a che cosa? Innanzitutto, e in questo sta il primo insegnamento, al «tenersi lontano da ogni cupidigia» (Lc 12,15). Il termine «cupidigia» (pleonexia) significa avidità di avere sempre di più in nome dell’«amore del denaro (philarguria) radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10), compresa l’«avarizia» perché non può privarsi di ciò che ha colui che vuole sempre di più. Questa caduta nelle mani della «ricchezza iniqua» (mammona, Lc 16,13) è discesa nella «idolatria» (Col 3,6), è lettura del denaro come fonte della propria identità: «ho dunque sono», del proprio potere: «ho dunque posso» e della propria sicurezza e felicità: «ho dunque riposati, mangia, bevi e divertiti» (Lc 12,19).
Una sorta di delirio di onnipotenza, da immaginare di potere esorcizzare persino la morte, dinanzi al quale l’esortazione sapienziale di Gesù è lapidaria: «Tenetevi lontani» da questo modo di pensare e di vivere. Per una semplice ragione, e in questo sta il secondo insegnamento, che «anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (Lc 12,15). Quello di Gesù è un invito a una guarigione da una malattia, e tale lo è il credere nel denaro come articolo fondativo e orientativo dell’essere e dell’esistere ossessionati dalla capitalizzazione per sé, dall’aggettivo possessivo mio come lo «stolto» (Lc 12,20) della parabola: i miei magazzini, i miei beni, la mia anima, i miei anni e tutto al molteplice (Lc 12,16-19). Malattia che non dà garanzie di sicurezza a motivo di ladri e di speculatori dai molti nomi (Lc 12,33), e a causa della carovana dei poveri che bussano alla porta dell’io murato e dei capitali murati generando inquietudine. Malattia che impedisce la gioia di relazioni nella gratuità, non unicamente mutuate dall’utile, e che non apre futuro. Non c’è posto nel mondo di Dio per l’io che fa di sé e dell’avere il proprio «dio».
Gesù maestro di sapienza che ha a cuore il bene presente e futuro dell’uomo mette in guardia dai falsi miti: «Fate attenzione» «dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34), o Dio o mammona (Lc 16,31). Se è il Dio di Gesù sarà iniziato a un approccio ai beni non secondo la logica della perversione dell’accumulo per sé ma secondo la logica del dono. I beni uguale a dono frutto di una laboriosità onesta e creativa, a dono di cui ringraziare, a dono da usare con misurata sobrietà e a dono da condividere a partire dai più bisognosi. Per un’economia personale e collettiva dal volto umano, espressione di una relazione d’alleanza. Questo fare del bene con i beni, e non solo materiali, è «arricchire presso Dio» (Lc 12,21), è accumulare un tesoro che non solo da senso al vivere quotidiano ma apre le porte del cielo (Lc 12,33; 16,9; 18,22). L’uomo della condivisione è eterno.