Scegliere l’Amore più grande

5 settembre, 23ª Domenica del Tempo ordinario. Letture: Sap 9,13-18;  Fm  9b-10.12-17;  Lc 14,25-33di GIANCARLO BRUNIEremo delle Stinche – Panzano in Chianti

1. «Chi ha orecchi per intendere, intenda» una parola che è «sale bello e buono» (Lc 14,34-35), in grado cioè di rendere sapiente-saporoso, profumato (2Cor 2,15) e musicale (Lc 7,32)  il giorno dato a vivere. E tale lo è quello del discepolo che senza indugi e con radicalità si decide per Gesù e il suo Vangelo. Al contrario il cristiano tiepido che si ferma a metà dell’opera o che torna indietro è un non sapiente insipido che non serve alla terra e a nulla (lc 14, 35; Ap 3,16). È questa l’ottica alla cui luce leggere una pagina che non sempre i nostri orecchi vorrebbero sentire, non tanto per la chiamata a un discepolato che senza tentennamenti va di corsa verso Gesù per seguirne le orme (Lc 14,25; Fil 3,12), nella consapevolezza della bontà di una scelta, ma per i prezzi che essa comporta e che riguardano le ragioni dell’io, dei legami di sangue e dei beni. Snodi che non possono essere elusi, con condizioni poste da Gesù stesso in termini categorici: l’«odiare» e il «portare la croce».

2. Gesù è in cammino dalla Galilea a Gerusalemme, dalla regione di un qualche riconoscimento alla città della non accoglienza (Lc 19, 41), un viaggio con ancora «molta gente che andava con lui». Ed è proprio questo dato di fatto, il «siccome, il poiché, il dal momento» che una numerosa folla lo seguiva che lo spinge a voltarsi indietro e a dire (Lc 14,25) una parola tesa a far luce sul che cosa comporta l’andare verso di lui-dietro a lui. Disilludendo da una sequela fondata su un entusiasmo non filtrato, mai infatti Gesù seduce, mai illude e mai strumentalizza situazioni di euforia o di debolezza, semplicemente gli premono la verità e risposte ponderate nella libertà. E la verità prima è questa: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26), «Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33). A voler dire: «Chi non mi preferisce, chi non mi ama più di…» non è adatto a stare con me condividendone viaggio, sorte e destino ultimo. «Odiare» infatti è un semitismo che equivale ad «amare di meno» e posto in bocca a Gesù vuol dire che per divenire suoi discepoli è condizione imprescindibile l’essere egli il «più amato» di tutti e di tutto, più dell’io, del clan parentale e degli averi. Un amare di più che in concreto, ed è questa la seconda condizione della sequela, significa croce: «Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,27).

L’amare veramente Gesù non si misura sull’onda delle emozioni e delle devozioni ma è provato dal far proprio il suo orientamento di vita, il sollevare e il caricarsi sulle spalle come lui e in forza di lui «il giogo dolce e il carico leggero» Mt 11,30) di un amore di cui la croce è segno inequivocabile. Per dirla alla maniera di Giovanni: «Voi siete miei amici, se farete ciò che vi comando» (Gv 15,14), e ciò che vi comando è questo: «amatevi come io vi ho amati» (Gv 13,34). Gli entusiasti sono invitati da Gesù a ponderare bene le condizioni della sequela, a sapere che si tratta di un viaggio d’amore fino alla libera consumazione di sé per tutti. La direzione è appunto verso Gerusalemme, l’appuntamento dato a tutti per contemplare in lui un Dio che è amore ad altezza di croce; decidersi per lui lo è a queste condizioni per non ritrovarsi nella situazione di chi ha cominciato a costruire una torre fermandosi a metà, o di chi ha indetto una guerra votato alla sconfitta per mancanza di discernimento delle proprie e altrui forze (Lc 14,28-32). Gesù non ama  cose lasciate a metà e inizi mai conclusi che generano derisione (Lc 14,29) e tristezza (Lc 18,23).

3. Una pagina indubbiamente provocatoria a cui, per capirla adeguatamente, possiamo sottendere una domanda: qual è la collocazione migliore per apprendere l’arte dell’amare bene fino in fondo? Lo stare con Gesù, l’essere amati da Gesù riamandolo e l’amare come Gesù, rispondono i Vangeli, costituiti soggetti -  veicoli di amore. Discepolo è chi entra in lucida consapevolezza in questo orizzonte che merita adesione più di ogni altra cosa e che permette di amare bene ogni altra cosa. Pertanto «mettere Dio, mettere Gesù al primo posto vuol dire porre una garanzia che preservi l’amore. Lo preservi dal diventare nido di egoismi e lo mantenga vero amore» (A. Casati), l’egoismo esclusivo ed escludente del sé, del clan e delle cose. La conclusione è scontata: «Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12,57): rende più salati – sapienti – ricchi d’amore una vita ancorata a Cristo e al suo Vangelo o il sì alla ragioni assolutizzate del sé, del sangue e del capitale? Nella risposta sta il diventare discepoli o meno, sta l’interrompere il viaggio verso l’apice dell’amore o meno, sta la paradossalità che unicamente nel decidere per l’Amore più grande è dato amare con giustezza, con sovrabbondanza e con senso critico ogni altro amore che è sempre secondo, ma non secondario, rispetto al primo da cui tutto sgorga.