Le parabole, «Vangelo del Vangelo»

12 settembre, 24ª Domenica del Tempo ordinario. Letture: (Es 32,7-11. 13-14;  1Tm 1,12-17;  Lc 15,1-32)di GIANCARLO BRUNIEremo delle Stinche – Panzano in Chianti

1.  Le tre parabole della misericordia, poste al centro del cammino di Gesù verso Gerusalemme, con esattezza sono state definite il «vangelo del vangelo» secondo Luca. Da esse emerge una immagine di Dio davvero buona notizia all’uomo e motivo di gioia incontenibile, e al tempo stesso contestata. Una emersione tutta racchiusa in un gesto di Gesù: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro» (Lc 15,2), a voler dire Costui rivela e narra Dio come amico di quanti gli sono nemici, come vicinanza a quanti gli sono lontani e come parola a quanti sono distanti dal praticarla: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo» (Lc 15,1). E tutto questo a mensa, luogo indice di convivialità nella gioia, nell’amicizia, nella solidarietà, nella condivisione e nel racconto. A Gesù basta un gesto per rivelare che il suo Dio, il Santo – il Giusto – il Puro, in lui ha posto la sua tenda tra i non santi, i non giusti e i non puri, ad essi compagno di tavola infrangendo ogni barriera divisoria, quelle poste da farisei, scribi e sacerdoti di ogni tempo e di ogni dove preoccupati di perimetrare i luoghi della presenza di Dio e degli accessi a Dio, luoghi che Dio tranquillamente scavalca. Generando stupore e scandalo: «I farisei e gli scribi mormoravano» (Lc 15,2), e ogni religione e Chiesa ha i suoi. Ed è proprio questa mormorazione da parte di «alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18,9), che spinge Gesù a ritornare sul suo gesto articolandolo ulteriormente attraverso una serie di paragoni tratti dallo scenario della vita, una pecora smarrita dal pastore, una dramma perduta da una donna e un figlio andato via di casa quando non gli mancava nulla. Occasione per ulteriori illuminazioni del volto del suo Dio, aspetto su cui appuntiamo la nostra attenzione.

2. E ulteriore illuminazione è la sottolineatura della declinazione di questa passione d’amore affidata nei tre racconti parabolici al vocabolario della commozione che rende veggenti (Lc 15,20), tali cioè da mai perdere di vista chi ti ha perso di vista. Un vedere tradotto in attesa e meticolosa ricerca, in un mai arreso inseguire e correre incontro (Lc 15,4.8,20) fino a un ritrovamento (Lc 15,4-5.8-9.24) che equivale a porsi sulle spalle la pecora smarrita (Lc 15,5),  a gettarsi al collo e a saziare di baci il figlio perduto (Lc 15,20) e a togliere spazio e tempo alle confessioni di colpa e di indegnità (Lc 15,21) per dare avvio alla festa (Lc 15,24) in una contentezza, in una gioia e in una allegrezza, quella di Gesù e del Dio di Gesù (Lc 15,5) a cui il tutto è chiamato, terra e cielo (Lc 15,6-7.9-10). Questo il volto di Dio contemplato nel volto di Gesù, un Dio che di sua iniziativa, mosso da null’altro che da un folle amore, esce in Gesù dalla sua distanza per dire ai distanti da lui che egli è semplicemente innamorato di loro, e che la loro vicinanza lo rende felice. Egli non li ha mai smarriti, mai persi, e in Gesù è venuto come non mai a raccontarlo. Un racconto, e si moltiplicano le sfaccettature della declinazione dell’amore, nella libertà, nello scacco, nel pianto e nel sogno. Libero è il figlio minore di andarsene di casa, l’amore non genera prigionieri né della verità ne dell’amore stesso (Lc 15,12), e liberi sono scribi, farisei, il figlio maggiore e chicchessia di riconoscere, di accogliere e di rimanere titubanti dinanzi a un simile Dio e alla sua logica (Lc 15,2.25-32; Gv 1,10-11; Ap 3,20). E libero è Dio che pur nello scacco non spezza le gambe a nessuno, come di fatto avveniva nei confronti della pecora smarrita perché non scappasse più, ma consegna il suo non essere capito all’attesa (Lc 15,20) e a un pianto di tenerezza per la città che non capisce (Lc 19,41-42), indice di un dolore per un sogno dagli esiti incerti. Sogno il cui nome è conversione (Lc 15,7) a questo volto di Dio, a questo porsi di Dio e a questo lasciarsi coinvolgere dal suo mondo da divenire disgraziati a cui è stata fatta grazia resi capaci di lasciar cadere dalla propria sacca briciole di compassione per la pecora smarrita e le altre novantanove, per la dramma perduta e le altre nove, per il figlio minore e il figlio maggiore. Questo è l’unico linguaggio che apre l’esistere al senso, che opera il passaggio dalla morte alla vita (Lc 15,32), alla dignità filiale rivestiti dell’abito bello della compassione, partecipi con l’anello della regalità divina della compassione, per un cammino nella compassione, i sandali dell’amore (Lc 15,22).

3. Questo «vangelo del vangelo»  davvero potenza di Dio in grado di far «rientrare in sé stessi» (Lc 15,17). Un ri-venire a sé personale, ecclesiale e umano valido per ogni tempo perché, spogliati di ogni illusione, è sempre tempo di carrube (Lc 15,16) e, come recita un proverbio rabbinico, «Quando gli Israeliti sono costretti a mangiare carrube, si convertono». I «mio Dio che tempi – che Chiesa – che mondo» non domandano lamentele ma pianto al punto che il cuore di ciascuno, sognare è legittimo, divenga il fonte battesimale da cui Dio in Cristo continua a sgorgare lacrime e a porre gesti amici sul dolore, sulla opacità e sulla ottusità della realtà umana. A cominciare dal proprio Sé.