Guai a chi si scorda dei poveri
1. Gesù ama il parlare in parabole, il paragonare o mettere a confronto situazioni, non solo allo scopo di facilitare la comprensione immediata di quanto egli dice ma al fine di costringere gli uditori a rientrare in sé stessi e a cercare in sé stessi il significato sempre più profondo di quanto egli ha inteso comunicare. Un significato capace di capovolgere modi di pensare e stili di vita, nel caso di farisei, sadducei, discepoli del tempo di Gesù e della comunità primitiva, i destinatari di questa parabola nella reinterpretazione lucana, unitamente a noi. Essa infatti è parola del Signore per quanti oggi la ascoltano.
2. La parabola ci pone davanti due ritratti, l’uno di un ricco senza nome e l’altro del povero Lazzaro. Il ricco di cui qui si parla appartiene a una categoria particolare di ricchi, coloro che si distinguono per le loro belle case, per vestiti raffinati, nel caso porpora di Tiro e bisso o lana di lino egiziano, e per lauti banchetti accompagnati da musiche e danze. Così li descrive il profeta Amos: «Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge… canterellano al suono dell’arpa, bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati» (Am 6,4-6). Una visione della vita cara al movimento sadduceo: beato l’uomo a cui è data una vita felice, una morte nella pace e una onorevole sepoltura. Altro non c’è da sperare. Ebbene, diciamo subito che la parabola non si scaglia con toni socio – moralistici – religiosi contro la cultura della bella casa, del ben vestire e della buona tavola. Non sta in questo il peccato del ricco ma in una spensieratezza che diventa omissione, aspetto lucidamente sottolineato da Amos: «Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano» (Am 6,1.6), aspetto ripreso da Gesù. La colpa del ricco pertanto sta, pur potendolo, nel non voler vedere il povero che giace alla sua porta, forse un lebbroso, e nel non ascoltare il suo gemito. Sta appunto nel non darsi pensiero di un impuro malato e affamato, il lebbroso, a cui di compagnia e di consolazione sono i cani, animali essi stessi impuri. Il suo è il peccato di omissione del soccorso del povero, è di avere scavato un abisso incolmabile tra sé e il suo mondo dorato che non sopporta disturbi e il povero negandogli casa, vestito, pane e cura a differenza del pubblicano Zaccheo e del commerciante «buon samaritano».
Nel suo processo di umanizzazione non è neppure pervenuto a livello di cane, per questo non ha nome proprio perché ciò che identifica l’essere uomini è il prendersi cura dell’altro. Questa distanza abissale dal povero è al contempo distanza abissale dalla parola di Dio, Mosè e i profeti (Lc 16, 29-31), un Dio nel cui libro è scritto il nome del povero: Lazzaro significa infatti «Dio aiuta», il Dio dei, con e per i poveri ad essi sguardo, udito e aiuto sia pure attraverso la compassione di un cane. E soprattutto ad essi futuro.
Il darsi pensiero di Dio nei confronti del povero nel tempo presente è una non omissione che dura in eterno: «Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo» (Lc 16,22), finalmente a casa nel banchetto messianico.
3. Un invito ai cristiani di ogni tempo, e a ogni coscienza umana, a stare attenti a non generare un abisso tra sé e il povero, etsi pauper non daretur, come se il povero non esistesse. Attenzione a non generarlo qui e ora con il rischio, prospettiva tipicamente lucana, di prolungarlo nell’allora ma in una sorte capovolta: in alto nel seno di Abramo il povero Lazzaro, in basso negli inferi il ricco epulone. A voler dire che nel futuro di Dio c’è posto per un solo tipo di uomo, quello che ha amato porgendo mano agli ultimi della terra, dalla cura delle piaghe alla luce di Dio è il tragitto dell’uomo secondo Dio, sia per i figli di Mosè e dei profeti che per i discepoli del Signore e gli uomini di retta coscienza (1Gv 3,14-17; Mt 25,31-46).
Le nostre orecchie non amano ascoltare certi messaggi (Lc 16,26), non si tratta ovviamente di giudicare del destino di nessuno che è opera esclusiva di Dio in Cristo, quanto di non omettere il darsi pensiero di sé chiedendoci se la nostra ricchezza economica, di bella vita, culturale e religiosa non finisca per imprigionarci in noi stessi e in ciò che ci piace al punto di renderci ciechi verso l’indigente e verso la parola, al punto da non potere e da non volere essere risvegliati neppure da un Risorto dai morti (Lc 16,31).
Luca non minaccia, semplicemente avverte che il rischio di abortire la vita è una eventualità da non scartare, nascere è passare dalla spensieratezza e dal disinteresse al pensare e al custodire.