Il venire della bontà
1. La scena è ancora occupata da Giovanni Battista, non più dal deserto ma dal carcere e con una certezza attraversata da un dubbio suscitato in lui dal modo di operare di Gesù (Mt 3,2).Al punto da inviargli una delegazione «a dirgli: sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 3,3). Il precursore si attendeva un Messia- giudice inviato a separare grano e paglia (Mt 3,12) e a tagliare ogni albero che non dà frutto (Mt 3,10), una aspettativa messa in crisi da quanto egli sente dire di Gesù (Mt 11,2). Crisi confermata dallo stesso Gesù la cui venuta non è nel «lamento» ma nel «suono del flauto» (Mt 11,17). In Gesù Dio si manifesta buona notizia e dolce musica per ogni dannato della terra, in lui Dio salva e non condanna (Gv 3,17), il tempo del giudizio è rimandato a date note a Dio. Ne consegue che il farsi vicino di Dio è nella forma di una regalità che va colta in gesti che generano vita là ove carente è la vita. Nessuno escluso.
2. La risposta di Gesù a Giovanni è inequivocabile a questo proposito: «Andate e riferite ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo» (Mt 11,4-6). Beato cioè chi non trova inciampo in una presenza il cui dire e il cui agire sono rivelativi di un Dio totalmente teso a ricomporre in integrità i feriti nel corpo e nella mente, a salare gli insipienti, a trasformare gli operatori di iniquità e a risuscitare i morti. Gesù alla domanda del Battista se sia egli o meno colui che deve venire lascia la risposta al linguaggio dei gesti, i soli a rendere evidente senza ombra di dubbio di quale immagine di Dio sia portatore il Messia di Dio, l’inviato nel quale Dio si racconta in maniera ultima e perfetta. Un Dio non narcisista, per questo né risentito né fuoco divoratore, ma via d’uscita ai prigionieri del loro male fisico, psichico e morale, un Dio che non manda ma libera dall’inferno, cioè da un presente e da un futuro segnati dal non senso e dall’infelicità. Il patire della creatura è il patire di Dio e lo stare bene della creatura è la gioia di Dio, e tutto questo è detto in Gesù, colui che ha avvicinato in maniera unica e ultimativa il “cielo” alla terra, e se di inferno si deve parlare è per non ridurre il cielo a un “campo di concentramento”di forzati al bene e alla vita. L’ingresso nell’orizzonte di un Dio in Gesù gioiosa notizia e di un uomo chiamato in Gesù a divenire gioiosa notizia a un altro uomo, chiunque esso sia, è un evento di amore consegnato alla libertà dell’uomo. Questa è comunque l’immagine di Dio a cui dobbiamo convertirci unitamente alla lettura di Gesù come pietra d’inciampo nei confronti di ogni altra rappresentazione di Dio.
3. Tempo di Avvento dunque come attesa di una immagine di Dio da rapire con forza (Mt 11,13) portata da colui che definisce il coerente e rigoroso Giovanni (Mt 11,7-8) “più che profeta” perché messaggero del Messia (Mt 11,9-10), per questa ragione il più grande tra i nati di donna. E tuttavia un suo discepolo, per questo a lui ” più piccolo” ( Mt 11,11),è più grande di lui in riferimento al Regno dei cieli, costui è la narrazione fatta storia della regalità del Padre come malattia d’amore per l’uomo. Questo dice a Giovanni e a noi chiamati a discernere il passaggio di Dio là ove avvengono gesti di vita per il povero mondo.