Dal volto alla parola
1. Gesù il Figlio è il messo alla prova, Gesù il confessato Cristo (Mc 8,29) è il destinato a venire ucciso (Mc 8,31), Gesù il condannato a morte è il risorto-trasfigurato. La paradossalità è il modo di procedere di Marco e i suoi lettori devono sapere che il loro Signore lo è in forma fragile, provata e scartata, né riconosciuta né accolta direbbe Giovanni (Gv 1,10-11), scandalosa e folle direbbe Paolo (1Cor 1,23). È in questo contesto e in risposta all’affermazione: «In verità vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non moriranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza» (Mc 9,1), che va letto l’evento della trasfigurazione. Uno squarcio di luce in un cammino dai contorni chiroscuri, un capire-non capire di cui Pietro è l’evidente esemplificazione: segue Gesù, lo definisce Messia e a sua volta viene definito «Satana, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33).
Pietro a una giusta definizione suggeritagli dal Padre fa seguire una cattiva interpretazione della messianicità di Gesù immaginata in termini di investitura, di potere e di successo politico, non pensata in termini di grammatica di amore fino alla croce. Una prospettiva che lascia smarriti e che spaventa, a cui viene incontro la trasfigurazione a voler dire che Dio risuscita dai morti colui che unicamente nella croce poteva svelarne il volto. Croce e resurrezione sono inscindibili, l’una rivela l’amore incondizionato di Dio e l’altra lo conferma. Questo devono apprendere Pietro e i discepoli, a questo mira un racconto modellato sulla teofania del Sinai: il monte (Es 24,1.12-13), i sei giorni e il settimo (Es 24,16), i tre che accompagnano Mosè (Es 24,1.9), la nube e la voce (Es 24,15-17), il timore (Es 24,1.9) e ancora il volto raggiante di Mosè (Es 34,35). Siamo dinanzi ad una grande rivelazione.
2. Lo dice l’«alto monte», biblicamente luogo del manifestarsi di Dio; lo dicono i «tre», il numero richiesto per convalidare una testimonianza, appunto quella della trasfigurazione (Mc 8,9-10; 2 Pt 1,16-18); e lo dice l’espressione «sei giorni dopo», vale a dire il settimo o sabato. Giorno della memoria celebrativa delle meraviglie di Dio, lo sguardo rivolto al passato, giorno dell’attesa del non ancora delle meraviglie di Dio, il sabato eterno nella luce, lo sguardo rivolto a un futuro di cui è anticipazione la trasfigurazione. Quel corpo fragile nato da Maria e quel corpo ferito ad opera dell’uomo viene trasformato in un corpo di luce avvolto in splendide vesti, indici del suo appartenere al mondo celeste, al settimo giorno o Regno di Dio in pienezza a cui è destinata l’intera umanità rappresentata da Pietro, Giacomo e Giovanni gli avvolti nella «nube», metafora della presenza di Dio.
Leggiamo nell’Apocalisse: «La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello» (Ap 21,23). La grande rivelazione è posta: agli sconcertati dalla croce è stato concessa la visione del dopo croce, è stato dato contemplare il destino ultimo di Gesù e in lui del tutto, una visione che Pietro portavoce di un desiderio comune vorrebbe eternare: «Rabbì, è bello per noi essere qui». Ma una «voce che esce dalla nube» rimanda a una lettura del Regno che esige di essere rispettata in tutti i suoi passaggi. Dio il re in Gesù dichiara aperto il tempo ultimo della sua lotta radicale contro il male e della sua passione viscerale per le vittime e per i giusti umiliati della terra; una lotta regale che patisce una resistenza fino alla eliminazione del giusto Gesù; un essere tolto di mezzo che non significa sconfitta di lui e della sua causa, Gesù trasfigurato è la ricapitolazione delle vittime della storia e, vivente, continua la sua lotta fino alla vittoria definitiva. Questo viene ricordato a Pietro e ai suoi discepoli. Non è ancora giunto il momento terminale del Regno, è ancora tempo di battaglia contro il nemico dell’uomo, urge il «ridiscendere dal monte» ma con una nuova consapevolezza sposata a una chiarezza.
3. La consapevolezza che luce al giorno dato a vivere è la parola: «Ascoltatelo». L’udito rende veggente lo sguardo e luminosa una vita, quella appassionata per il bene dell’uomo e della sua verità al prezzo di venire recisi e al punto di benedire chi ti recide. I mai conclusi atti di amore sono i semi del futuro, ai discepoli gettarli e irrigarli e a Dio il farli crescere, solo chi ama apre futuro. È la via di Dio in Cristo, una via sposata ad una chiarezza: Colui che nel Figlio ha dato un nome all’uomo, amato, e un compito all’uomo, amare come amato, è il medesimo che dà un futuro all’uomo, la Città della luce in corpi di luce. Questo dice trasfigurazione, momento terminale di un cammino che non può eludere il tempo del battesimo della presa di coscienza della propria verità filiale e il tempo del giorno dato come declinazione del comandamento dell’amore, che raggiunge il suo compimento nell’ora della offerta di sé a chi ti offre alla morte.