Il Messia acclamato, profumato e crocifisso
1. Il cammino terreno di Gesù è verso Gerusalemme, città nella quale egli entra nell’acclamazione ponendovi gesti decisivi e pronunciandovi parole radicali che ne segneranno il destino. Un ingresso attraversato da un grande equivoco. Da un lato la folla che vede in Gesù il Messia atteso a liberare il popolo dall’occupazione romana instaurando il regno di David, d’altra parte Gesù che pur capendo le aspettative di un popolo amato e oppresso sa che non potrà esaudirne il desiderio. Altro è il suo modo di declinazione della regalità, Messia sì ma nella linea della debolezza forte della croce e non della potenza e del successo politici. Un equivoco che a breve sarà sciolto: al grido «benedetto» (Mc11,9) seguirà il grido «crocifiggilo» (Mc15,13-14), e trono del Messia sarà la croce e «La scritta con il motivo della sua condanna diceva: Il re dei Giudei» (Mc15,26).
2. Ma tra l’ingresso festoso in Gerusalemme di Gesù e la sua passione si snodano tutta una serie di gesti e di parole che meritano attenzione nel loro dischiudere a una intelligenza profonda di lui e ai molteplici modi di porsi nei suoi confronti. La cosa ci riguarda da vicino. Tra i gesti vogliamo ricordare la cacciata dei venditori dal tempio connessa all’episodio del fico sterile (Mc11,12-17) a voler dire che egli, Gesù, è il tempio di Dio (Mc14,58) che emancipa i credenti in lui da ogni tempio fatto da mano d’uomo, rendendoli idonei al compimento di frutti buoni a tempo debito e no. Il bene non conosce stagioni morte.
Tra le parole ricordiamo quella relativa al tributo a Cesare (Mc12,13-17), un invito a non idolatrare l’autorità politica convertendola in assoluto, a non politicizzare Dio strumentalizzandolo ai propri scopi e ad assumere le proprie responsabilità sociali con coscienza pura davanti a Dio e agli uomini. Insegnamento a cui fa seguito quello riguardante la resurrezione dei morti (Mc12,18-27), un atto di fede frutto di una relazione personalissima con il Dio della Scrittura che è in sé e per sé Dio dei viventi e non dei morti, un Dio che convince a pensarlo per quello che è: un Tu a cui la vita dell’uomo è cara per sempre. Caro gli è il suo futuro e caro gli è il suo giusto orientamento nel presente, l’amare Dio e il prossimo come lo ama Dio in Gesù, vale a dire in termini non condizionati da ragioni religiose, morali e etniche. Semplicemente perché creatura umana.
Questo dice la parola relativa al primo comandamento, problema posto da un maestro della legge lodato per la sua saggezza (Mc12,28-34). Un abitare la terra dunque nell’amore e, il riferimento è al discorso sulla fine del tempo (Mc13), non da ossessionati da previsioni-predizioni sulla fine e neppure da distratti che non attendono nulla. Ma nella consapevolezza che questo mondo vecchio finirà lasciando il posto al regno di Dio. Un dire e un agire, questi di Gesù, che qualificano la sua messianicità-regalità in termini, direbbe Giovanni, di «verità»: «Allora pilato gli disse: Dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37). Verità circa Dio, l’orientamento al vivere, la morte, il dopo morte, il destino ultimo del mondo e la relazione con l’istituzione politica e religiosa. Soprattutto quest’ultimo aspetto, la purificazione del tempio, provocherà tra i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani una forte reazione: «Con quale autorità fai queste cose?» (Mc11,28), accompagnata da una precisa decisione: «E cercavano di catturarlo» (Mc12,12). Capi accusati da Gesù di due misfatti: il sentirsi padroni di un popolo non loro ma di Dio, il voler usurpare un posto non loro ma dell’erede che è l’inviato di Dio (Mc 12,1-12). Le premesse della passione sono poste e riguardano ragioni interne a ogni autorità religiosa, non elusa quella ecclesiale: il passaggio dal servizio alla logica padronale (1 Pt 5,2-3) di chi dimentica che nella Chiesa uno solo è il Padre e uno solo il Maestro, e tutti fratelli ciascuno al proprio posto di servizio.
3. In questo scenario di entusiasmo ambiguo e di decisione di morte si staccano due donne, profezia di quello che sta avvenendo. L’una, vedova e povera, dà «tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc12,41-44), e diventa l’icona di Gesù che ha dato tutto se stesso. Il gettato fuori dalla vigna (Mc12,8) è colui che dona la sua vita in riscatto (Mc10,45) a chi lo ha respinge, ebreo e non ebreo, divenendo pietra angolare (Mc12,10) di una nuova umanità, quella che benedice chi ti maledice (Ef 1,3s; Gal 3,13). La seconda donna è quella dell’unzione di Betania (Mc14,1-11) che nella sua intuizione di amore, andando oltre i discorsi eticamente e politicamente corretti del giusto valore dei beni e della loro giusta destinazione ai poveri, inonda di profumo un corpo che è emanazione unica di un profumo unico, il lasciarsi ferire convertendo quella ferita in porta d’ingresso nel suo amore. Aperta a tutti. La chiave di lettura della passione è posta, due donne l’hanno indicata.