Il Vangelo ci insegna: ama il tuo nemico. Mi chiedo cosa significhi questo quando si viene aggrediti. Anche se non ci interessa la nostra vita non si ha, ad esempio, la responsabilità di difendere le altre persone che abbiamo intorno?Anna ManciniRisponde don Leonardo Salutati, docente di Teologia moraleL’insegnamento della Chiesa sulla «legittima difesa», che troviamo espresso nel Catechismo della Chiesa Cattolica e nell’enciclica Evangelium vitae, ci aiuta a inquadrare la questione. «La legittima difesa delle persone e della società non costituisce un’eccezione alla proibizione di uccidere l’innocente» (Catechismo 2263), in quanto è intenzionalmente un atto di autodifesa, l’eventuale ferimento o morte dell’ingiusto aggressore è involontario e va attribuito «allo stesso aggressore che vi si è esposto con la sua azione, anche nel caso in cui egli non fosse moralmente responsabile per mancanza dell’uso della ragione» (Evangelium Vitae 55).Far rispettare il diritto alla vita propria o altrui è un principio fondamentale della morale, per cui «chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio» (Catechismo 2264) qualora questo si verifichi, purché nell’autodifesa non si usi maggior violenza del necessario. Inoltre, «La legittima difesa può essere non soltanto un diritto, ma un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile» (Catechismo 2265).A chi esprime dubbi sulla compatibilità della legittima difesa con lo spirito evangelico, si fa osservare che l’atto di autodifesa non è una scelta intenzionale di esercitare violenza per difendersi o per prevenire un’aggressione o comunque per uccidere. Se così fosse, infatti, l’autodifesa che sfociasse addirittura nell’uccisione dell’aggressore sarebbe omicidio diretto e volontario e, quindi, una scelta di farsi giustizia da sé che non è lecita, perché fare giustizia è compito delle pubbliche autorità. San Tommaso afferma decisamente che è illecito che un privato cittadino «miri direttamente a uccidere per difendere se stesso» (S.Th., II-II, q. 64, a. 7).L’autodifesa consiste nel contrastare l’azione posta in essere dall’aggressore e non contro la sua persona o la sua vita, qualora si verificassero delle lesioni sarebbero conseguenze collaterali, non intenzionali, dell’azione lecita di difendersi.Per valutare la liceità dell’atto di autodifesa la dottrina morale prevede che si verifichino contemporaneamente le seguenti condizioni: che si tratti di un’aggressione in atto, che l’aggressione sia ingiusta, che si usi il minimo di violenza indispensabile per respingere l’aggressore, che il male arrecato sia proporzionale al bene difeso. Il Catechismo nell’elencare le condizioni per la «legittima difesa militare», la cui decisione spetta al giudizio prudente di chi ha la responsabilità del bene comune, oltre a precisare ulteriormente le condizioni appena indicate aggiunge anche, opportunamente, «che ci siano fondate condizioni di successo» (n. 2309).Evangelium vitae ricorda anche che in alcune particolari circostanze una persona può sentirsi chiamata a esercitare eroicamente la carità e la mitezza rinunciando a difendere la propria vita dall’aggressione, considerando che: «Al diritto di difendersi… nessuno potrebbe rinunciare per scarso amore alla vita o a se stesso, ma solo in forza di un amore eroico, che approfondisce e trasfigura lo stesso amore di sé, secondo lo spirito delle beatitudini evangeliche nella radicalità oblativa di cui è esempio sublime lo stesso Signore Gesù» (n. 55).Per cui tale «rinuncia» non può essere presentata come un dovere morale generale e in ogni caso il Vangelo, con le sue esigenze di carità, mitezza e perdono, non è in contraddizione con le esigenze fondamentali della giustizia. Il Vangelo ci chiama alla mitezza e al perdono, ma non tutela l’aggressione né può essere invocato per colpevolizzare chi si difende con moderazione, senza odio e con spirito di carità.