Mi ha sempre incuriosito la figura di Ponzio Pilato. Lo trovo molto «moderno», molto vicino nel suo modo di pensare a quello del nostro tempo. Mi chiedo se certe sue scelte possano essere state fatte su ispirazione dello spirito Santo e se in qualche modo si possa considerare un «convertito» o comunque si possa dire che il Signore, nonostante la sua diffidenza, abbia toccato il suo cuore.Lettera firmataRisponde don Stefano Tarocchi, docente di Sacra ScritturaNella conclusione di un recente saggio (A. Schiavone, Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria, 2016) sul prefetto della Giudea, l’autore, giurista e storico, scrive di essere impressionato da «un’insuperabile ambiguità che si riproduce di continuo intorno a Pilato, appena se ne parli; quasi la sua cifra non potesse essere altro dall’indefinito, dalla nebbia; e aleggiasse su di lui l’ombra di un non detto, di un taciuto che intercetta ogni volta la luce, o la deforma». Tuttavia, nessuna meraviglia se l’uomo che fu, sotto il principato di Tiberio, il quinto prefetto della Giudea in carica dal 26 al 36 d.C. (e che aveva a disposizione un’unità di cavalleria e cinque coorti), non era molto amato. Peraltro, anche se Tacito, usando un anacronismo lo chiama «procuratore», il titolo di prefetto è testimoniato un ritrovamento di una iscrizione – usata originariamente per una delle torri del porto di Cesarea Marittima, sua residenza insieme al grosso della guarnigione, dedicata all’imperatore Tiberio, e poi riutilizzata nel rifacimento del teatro della città.Una lettera del re Erode Agrippa I lo descrive come «implacabile, senza riguardi, ostinato». Sappiamo anche di stragi fatte compiere dai suoi soldati tra le folle: una, in occasione dei lavori dell’acquedotto del tempio di Gerusalemme, che Pilato voleva finanziare con il tesoro del Tempio (Flavio Giuseppe); un’altra in circostanze ignote, come rammenta il terzo Vangelo (Lc 13,1: «quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici»), una terza a danno dei Samaritani, che si accompagna a quando, con le insegne imperiali e l’effige dell’imperatore, oltre che il suo nome divino, fece ingresso nel tempio di Gerusalemme. L’azione contro i Samaritani segnò la sua rovina: essi infatti reclamarono presso Vitellio, legato romano in Siria (per lui c’erano a disposizione quattro legioni: la VI, la X, la III e la XII) da cui Pilato dipendeva, e questi lo sospese dalla sua carica, inviandolo a Roma a rispondere del suo operato al tribunale di Tiberio. Prima che arrivasse a Roma Tiberio era già morto, e Pilato cadde nell’oblio. La storia di Pilato può essere ricostruita solo a partire dalle testimonianze evangeliche dei tre Vangeli Sinottici, e soprattutto di Giovanni, nei rispettivi racconti della passione. Tutte le fonti confermano che «l’arresto e la condanna di Gesù avevano avuto un impulso giudaico, all’interno dell’élite sacerdotale»: l’autorità romana e quella giudaica hanno proceduto fianco a fianco. Questo è confermato dal fatto che nelle accuse mosse a Gesù ci fu uno slittamento dal piano religioso a quello politico, che prevedeva il ben noto principio dell’autonomia delle regioni amministrate da Roma. Così il Vangelo di Giovanni: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!» (Gv 18,31) e l’affermazione significativa: «noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio» (Gv 19,7). Pilato venne usato per costringerlo a ratificare la condanna già stabilita dai maggiori esponenti del giudaismo: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare» (Gv 19,12). Era questo l’unico motivo per portare Gesù alla morte, senza poter invocare a Gerusalemme la legge che a Roma puniva chi avesse voluto sostituirsi al potere costituito proclamandosi «re dei Giudei». Ma Gesù, pur accusato di essere re, non ha un regno in questo mondo (cf. Gv 18,36). È da smontare anche la memoria trasmessa dal solo Matteo del gesto per cui Pilato è giustamente famoso, l’atto di lavarsi le mani (Mt 27,24), che è stato definito «il punto zero nella genealogia dell’antisemitismo cristiano», per approfondire il racconto del famoso «processo», che di fatto non è un procedimento vero e proprio. Sono stati avanzati da alcuni forti dubbi anche sull’invio da Pilato a Erode Antipa, come narra Luca (23,6-12), che vorrebbe addirittura costruire un’amicizia di comodo fra il tetrarca e il prefetto. Del resto, non era un processo nemmeno l’interrogatorio davanti ad Anna e poi a Caifa. Davanti a Pilato non c’era un cittadino romano, che poteva invocare una garanzia dovuta al suo stato giuridico o al suo patrimonio: c’era solo un predicatore dalle umili origini. Questo non impedisce di frapporre fra Gesù e Pilato la celebre domanda «che cos’è la verità?». È qui che nasce quella simpatia per il prefetto, come nella chiesa Ortodossa Etiope che addirittura annovera Pilato tra i santi. Si tratta dell’uomo, non a caso, che Tertulliano definiva «un cristiano nel cuore». Questo può in qualche modo rispondere all’osservazione del lettore, ma senza spingersi molto oltre. Di più non possiamo dire. In conclusione, non solo Giovanni, ma anche Matteo e Marco finiscono per incolpare l’intero popolo ebraico dell’intera responsabilità del crimine, scagionando (soprattutto Marco!) Pilato e il potere di Roma da ogni responsabilità sulla morte di Gesù. Se il Giudaismo ha manovrato perché Pilato pronunci la condanna, nonostante il tentativo in extremis di far appello alla consuetudine di liberare un prigioniero, non è il Giudaismo delle folle e del popolo, ma quello del potere politico-religioso. Tutto sommato anche Pilato, nella sua ineffabile ambiguità, ne è ugualmente vittima.