Quando la terapia è «sproporzionata» è legittimo decidere di interromperla
Si sente molto parlare di eutanasia, di suicidio assistito. Personalmente ho seguito da vicino le vicende di un amico che sta affrontando con coraggio cure e terapie molto pesanti, e sta cercando, faticosamente, di guarire. Mi sono chiesto, osservandolo, se sarei in grado di fare lo stesso. Per questo vorrei sapere: se una persona, di fronte a interventi pesanti e dall’esito incerto, rinuncia a curarsi lasciando progredire la malattia, può avere l’assoluzione da un sacerdote, o è destinato a morire, per la Chiesa, in condizione di peccato? E come si fa a stabilire il momento in cui «non c’è più nulla da fare», limitandosi alle terapie del dolore?
Lettera firmata
Non è la prima volta che un lettore condivide i suoi interrogativi in tema di cure mediche, nel dubbio – in questo caso – se una terapia particolarmente gravosa debba essere giudicata obbligatoria dal punto di vista della morale cattolica e se, di conseguenza, non praticarla o interromperla sia da considerarsi un atto riprovevole, in quanto segno di disprezzo o addirittura di rifiuto per la vita che il Signore ci ha donato. Il ritornare della domanda dipende – a nostro avviso – sia dalla difficoltà di discernere nelle singole situazioni quale possa essere la scelta migliore per noi stessi o per una persona a noi affidata, sia dal clima culturale odierno che tende a giustificare forme di eutanasia e di suicidio assistito e che finisce per gettare il sospetto anche su scelte moralmente ineccepibili.
La domanda di fondo, non sempre espressa in modo esplicito, è questa: la vita e la salute devono essere conservate con qualunque mezzo? La risposta elaborata dalla tradizione morale cattolica dagli albori della medicina moderna, nel XVI secolo, sino ad oggi e più volte confermata dal magistero a partire da Pio XII è che è ragionevole e, quindi, doveroso conservare la vita e la salute, ma con i mezzi umanamente praticabili. Si parlava un tempo di mezzi di cura «ordinari» e «straordinari», mentre oggi si preferisce parlare di mezzi «proporzionati» e «sproporzionati» prendendo come criteri di discernimento, nei casi concreti, l’efficacia del mezzo impiegato, la sua concreta accessibilità, la rischiosità, la gravosità. Il caso estremo è quello di terapie medico-chirurgiche che si rivelano non solo inutili, ma addirittura dannose per la persona, perché non ne migliorano la qualità della vita, ma ne prolungano la sofferenza oltre i limiti della storia naturale della malattia. Questa ostinazione irragionevole viene spesso denominata «accanimento terapeutico» ed è un comportamento moralmente sbagliato che non può essere confuso, in nessun modo, con la giusta cura che il credente deve avere della sua vita e salute. Esiste per tutti il diritto a morire in pace.
In altri casi una terapia non è propriamente inefficace nei confronti di una patologia, ma il paziente la percepisce come troppo gravosa per lui. In questi casi il rifiuto di una cura non è motivato da una volontà di morte, ma da una impossibilità reale da parte del malato di sopportare una terapia e i suoi effetti: si può trattare di una difficoltà e di una ripugnanza che egli, pur sostenuto e consigliato dai medici, dai familiari, dagli amici, onestamente non riesce a superare. Se volessimo dare un criterio generale di fronte alle vaste possibilità di intervento della medicina contemporanea, direi che non esiste l’obbligo di fare tutto ciò che è tecnicamente possibile, ma bisogna fare quello che è bene, in una determinata situazione clinica, per ciascuna persona tenendo conto tanto di fattori oggettivi, come la appropriatezza clinica di un mezzo terapeutico, quanto soggettivi come la reattività, sensibilità e capacità di tollerare la sofferenza. Il Catechismo della Chiesa Cattolica a questo proposito insegna che «l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima» (CCC 2278).
Interrompere le cure specifiche perché ormai inefficaci o insostenibili, non significa abbandonare il malato al suo destino: è il momento di iniziare o intensificare le cure palliative che si prendono cura di tutta la persona e la accompagnano nell’ultimo tratto del suo percorso. Il lettore si chiede che cosa farebbe se si trovasse nella stessa situazione di quel suo amico così coraggioso: nessuno può saperlo e forse, adesso che è in salute, neppure lui. Dal momento che egli si pone da credente in una attitudine di riflessione e di ricerca, sono certo farà quello che in coscienza, davanti a Dio, sentirà giusto e possibile. Forse troverà dentro di sé energie insospettate per lottare con il male sino all’ultimo sangue, forse si fermerà prima e, accettando il limite che segna tutto ciò che è umano, rinuncerà a cure gravose o rischiose o dolorose. Sono decisioni personali entrambe in sintonia con la visione cristiana della vita. Con grande saggezza Giovanni Paolo II, lui che ha combattuto per anni come un leone contro il Parkinson, insegna in Evangelium vitae che «la rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte» (EV 65).
Maurizio Faggioni