Sedazione profonda per malati terminali: è una pratica ammessa dalla Chiesa?
Una persona a me molto cara ha dovuto assistere il padre, malato di tumore. Arrivato alla fase terminale della malattia, l’infermiere che periodicamente lo assisteva a casa ha proposto la sedazione profonda, sapendo che non si sarebbe più svegliato. Io credo che abbiano fatto bene a dare il loro consenso, in modo da vederlo morire senza dolore; vorrei capire però se questa pratica è ammessa dalla Chiesa, e se non ci sono pericoli di fare confusione con forme di eutanasia.
Lettera firmata
La sedazione profonda detta anche palliativa o terminale – la diversa nomenclatura riflette situazioni e prospettive diverse – consiste nella somministrazione intenzionale di farmaci ad effetto sedativo in dosi e combinazioni adatte a ridurre fino a sopprimere la coscienza di un paziente, nella misura in cui è necessario per dare adeguato sollievo ad uno o più sintomi refrattari. Per sintomi refrattari si intendono quei sintomi che non sono adeguatamente controllabili nonostante gli sforzi terapeutici. I sintomi refrattari più frequenti sono il delirio o agitazione terminale, le gravi difficoltà respiratorie, il dolore. I farmaci più comunemente usati per ottenere la sedazione palliativa sono del gruppo delle benzodiazepine, dei barbiturici e dei neurolettici. La sedazione così ottenuta deve essere tenuta distinta dagli effetti collaterali sulla coscienza di farmaci somministrati per altre finalità (es. morfina nella terapia del dolore).
In linea di principio questa pratica è lecita, ovviamente quando si diano condizioni estreme e ribelli ad ogni altra terapia, con il consenso del malato o, in caso egli non possa esprimerlo, dei congiunti o dell’eventuale fiduciario, secondo quanto previsto dalla legge italiana. In senso positivo si era già espresso Pio XII in uno dei suoi grandi discorsi rivolti ai medici, veri capisaldi della futura bioetica cattolica. Rivolgendosi ad un convegno internazionale di medici e chirurghi il 24 febbraio del 1957, egli affermò che «non bisogna privare della coscienza il morente, se non per gravi ragioni. Prima di giungere a obnubilare o togliere coscienza al malato bisognerebbe dargli l’opportunità, se è possibile e se lo vuole, di soddisfare i suoi doveri morali, familiari e religiosi: il malato ha, infatti, il diritto a vivere la propria morte con dignità e libertà e a prepararsi ad essa dal punto di vista umano e cristiano». Questo insegnamento è stato ripreso dalla Dichiarazione sull’eutanasia, III del 1980, da Evangelium vitae 65 nel 1995 e dalla Carta degli Operatori sanitari edizione 2016 al n. 155.
Il dubbio del lettore ha, però, un fondamento perché, dati alcuni elementi comuni, le definizioni e le indicazioni dei diversi Autori e Società mediche non coincidono per questo o quell’aspetto e ciò rende difficile confrontare esperienze e legislazioni e dare giudizi etici generali sulla sedazione palliativa. Esiste una difficoltà oggettiva nel valutare l’effettiva refrattarietà di alcuni sintomi (es. aspetti soggettivi della intollerabilità del dolore) e difficoltà di valutare i motivi psicologici che possono portare alla richiesta da parte del paziente, se ne ha la possibilità. Difficile, soprattutto, è valutare la intollerabilità di un disagio esistenziale e stabilire che cosa si debba intendere con l’espressione di sofferenza refrattaria, espressione poco chiara che si legge all’articolo 2, 2 della discussa legge italiana 219 sul consenso e le disposizioni anticipate di trattamento.
Da un punto di vista teorico sedazione profonda ed eutanasia sono due realtà ben diverse. In entrambi i casi si vuole eliminare una sofferenza, ma nella sedazione profonda l’eliminazione della sofferenza viene conseguita togliendo la coscienza, mentre nell’eutanasia l’eliminazione della sofferenza avviene togliendo la vita. Il tipo di farmaci usati nella sedazione profonda, le dosi, le associazioni sono tali da togliere la coscienza e solo in casi estremi, come effetto collaterale non voluto, si può verificare una riduzione della quantità di vita. A questo proposito, una questione dibattuta è il rapporto della sedazione profonda con il mantenimento di idratazione e nutrizione artificiale e di altri sostegni vitali, come la ventilazione. Se, per esempio, si stacca un respiratore e il paziente ne muore, il medico lo deve preparare attraverso la sedazione profonda per non farlo morire fra sofferenze indicibili.
Nei casi in cui la sospensione di un presidio o di sostegno vitale sia legittima – e qui non possiamo entrare nel dettaglio – la sedazione terminale rientra nelle cure palliative che servono per accompagnare dignitosamente una persona alla morte. Nei casi in cui la sospensione di un certo presidio terapeutico o di un sostegno vitale siano illegittime, la sedazione – pur rappresentando una forma di sostegno compassionevole – entra a far parte del comportamento eutanasico.
Difficile valutare il caso concreto presentato dal nostro lettore, ma sembra di capire che si sia trattato di una sedazione terminale destinata unicamente ad accompagnare alla morte un paziente che soffriva molto e che scivolava inesorabilmente verso la fine.
Maurizio Faggioni