Amare Gesù più dei propri genitori: ecco cosa significa l’invito del Vangelo
Mi è capitato di ascoltare di recente queste parole del Vangelo: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Non mi ero mai reso conto che la traduzione italiana parla di «odio», che mi sembra un termine molto duro. Come vanno intese queste parole di Gesù? Grazie se vorrete rispondermi.
Mario Pieri
Il lettore si riferisce ad un testo che trova in questa forma nella precedente traduzione italiana (1974) della CEI: «se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». In quella del 2008, che usiamo nella liturgia, la stessa frase suona invece così: «se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Si vede che il traduttore voleva ammorbidire un testo ritenuto troppo duro, ma ha finito per scippare il lettore del suo effetto di provocazione.
Anche nel Vangelo di Matteo troviamo lo stesso detto di Gesù, ma stavolta la traduzione è assai vicina al testo originale: «chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me» (Mt 10,37).
Quello che scrive Luca nel testo originale greco, a causa della vicinanza dell’evangelista alla lingua ebraica ed aramaico, che non hanno il comparativo («più di…»), ma solo l’assoluto («odiare»), va compreso però nella stessa maniera del detto di Gesù nella versione di Matteo: «chi ama padre o madre più di me…».
Gesù osa collocarsi nella prospettiva divina di chi chiede un amore assoluto, che tuttavia non si sogna nemmeno di porsi in opposizione e in concorrenza all’amore per il prossimo. Se è vero che Benedetto da Norcia scrive nella sua regola: «Nulla anteporre all’amore di Cristo» (capitolo 4, 21), l’apostolo Giovanni nella sua lettera spiega bene la questione: «se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).
Dunque, l’amore per la creatura non è mai concorrenziale a quello per il Creatore, né questi è geloso delle sue creature.
Si tratta di ben altro. Lo spiega bene lo stesso vangelo. Infatti, sia in Luca che in Matteo, segue questo detto: «colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,27; cf. Mt 10,38). È proprio in nome dell’esser discepolo di Gesù che troviamo ancora, sempre in Luca: «chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,28-33).
Colui, dunque che vuole essere discepolo di Gesù, dovrà porsi nell’atteggiamento sapiente di chi vuole costruire una torre, oppure del re che decide se è il caso di affrontare una guerra.
Matteo invece svolge in altra maniera il detto sul «portare la croce»: «chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 10,39). Questo stesso detto appare altre volte nei Vangeli. Leggiamo ad esempio in Giovanni: «chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25).
Seguire il Cristo non è mai un gioco.
Stefano Tarocchi