La sofferenza interroga: quali risposte?
La sofferenza interroga, chiede ragione. Ma il credente non chiede perché. Davanti a fatti che interrogano la risposta l’ha data Kierkegaard (e altri prima di lui): «credo quia absurdum», credo perché è assurdo. È l’unica risposta possibile: il piano di Dio per il mondo contiene anche l’assurdo. È la fede di Abramo che accetta di sacrificare il figlio obbedendo al comando di Dio, di chi accetta il paradosso del Dio sommamente buono che crea un mondo in cui c’è la sofferenza degli innocenti. Oppure tutto è conseguenza del peccato originale? L’uomo che disubbidisce a Dio, che vuole essere simile a lui, la punizione, la cacciata, la caduta. La sofferenza degli innocenti è il prezzo per il peccato originale? Difficile da accettare.
Acquisita la fede alla nascita, prima o poi non è possibile non farsi questa domande e ci si accorge che la fede non è quella che credevamo di aver acquisito in modo quasi naturale ma è un grande problema, un problema molto serio. Allora è impossibile non sentire un profondo disagio, uno scombussolamento, le certezze vacillano: è il momento in cui o si accetta il «credo perché assurdo» o si perde quella che credevamo essere la fede. E un bel mattino ci si sveglia agnostici. Ed è un brutto risveglio: vivere senza le certezze perdute, le preghiere abituali recitate in modo mnemonico sin da piccoli, ma anche la fede vissuta, quella che aiuta nei momenti difficile, l’antidoto alla sofferenza di cui parla il Manzoni. Tutto è più complicato e anche qui c’è un prezzo da pagare: anche senza interlocutore rimane l’assurdo della sofferenza degli innocenti, la vita è una lotteria. Inutile chiedersi perché, non ci sono risposte. Il metro con cui ci misuriamo è solo la nostra coscienza e sappiamo quanto è rischioso. Il famoso «Se Dio non esiste, tutto è permesso» di Dostoevskj.
È una grande sfida ed è ineluttabile. E l’uomo è fragile, poter contare solo sulle proprie forze è un cari co di responsabilità forse troppo grande, rischia di soccombere. Che dire? Ammirare i credenti dalla fede cristallina (ma quanti sono?), quelli non sfiorati dal dubbio forse perché quelle domande non se le fanno mai (in ogni cosa accettano l’assurdo che chiamiamo mistero) ma che vivono sereni nelle tempeste della vita, anche se peccatori incalliti?
Bernardino Damonti
San Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Salvifici Doloris offre una profonda ed autorevole meditazione sul tema della sofferenza alla luce della rivelazione. Egli sottolinea innanzitutto l’importanza di non eludere un interrogativo difficile che l’uomo spesso rivolge a Dio. Afferma inoltre che per poter percepire la vera risposta al perché della sofferenza occorre volgere lo sguardo alla rivelazione dell’amore divino in Cristo crocifisso e risorto, l’Innocente per eccellenza. Pur nella consapevolezza dell’insufficienza ed dell’inadeguatezza di ogni spiegazione, si può affermare che con la sua croce Cristo offre la risposta di Dio all’uomo. Egli ci indica certamente un atteggiamento attivo nei confronti di tutto ciò che genera sofferenza, ma ci offre anche una modalità di viverla in comunione con Lui senza rimuoverne la drammaticità: «operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione. Quindi anche ogni uomo nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo» (S.D. n°19). Guardando a Cristo, all’Abbandonato, vivendo il dolore in comunione con Lui, l’uomo può trasformare la propria sofferenza in offerta.
Questa prospettiva trova conferma nell’esperienza di persone che vivono l’incontro con Cristo approfondendolo nella preghiera, anche nelle situazioni di più grave e irreversibile difficoltà. Ne è prova, ad esempio, la testimonianza di Chiara M., una donna di Trento affetta da molti anni da una disabilità fisica grave. Nei suoi libri (Crudele dolcissimo amore, Oscura luminosissima notte ecc.) ella ci offre un esempio significativo di una vera e propria esperienza mistica, «facendoci toccare con mano, lievemente ma decisamente, che nel «perché?» di Gesù anche queste tenebre diventano chiamata alla luce. Per tutti. Nessuno escluso» (P. Coda). Vi emerge infatti un dialogo costante con il Tu di Dio, il Socio, come lei lo chiama, a cui si rivolge incessantemente con le sue domande , con il suo grido, con le sue esplosioni di gioia. Ci viene presentata un’esperienza dove la preghiera appare come una lotta, come un combattimento, ma anche come gioia dirompente.
Chiara scrive ad esempio in un momento di grande sofferenza: «mi sento profondamente sola…sola con Dio solo. E’ questo che sto vivendo. Ed è dura.» Emerge talvolta anche un senso di ribellione: «come riesci a giustificarti nei miei confronti? Che senso dai a questa mia vita? Basta non ci sto più. Non voglio più soffrire. Questo gioco fra me e Te sta diventando troppo duro». Tuttavia, guardando a Gesù abbandonato, così come le aveva suggerito Chiara Lubich, ella giunge alla totale offerta di sé, giunge a riconoscersi in Lui, avverte di essere abitata da Dio: «all’improvviso, guardando Lui un pensiero: ’Io, contenitore di Dio!’ Mi sembra abissale! Troppo pensare che un catorcio come me, come sono io, possa contenere Dio».
Chiara scopre alla scuola di Maria, che anche nei momenti più bui, quelli della notte della fede, ciò che è decisivo è stare, perseverare nella preghiera: «dubbi, sensazioni tremende, vuoto totale. Ancora una volta l’unica cosa che ti serve in quel momento, l’unica cosa che puoi fare è stare. Quando penso a Maria ai piedi di quella croce, nel suo stabat, non credo facesse ragionamenti, non credo dicesse: ’Ah Gesù qua…Gesù là’. Era talmente pregna di dolore che stava. Non c’era nient’altro, deserto totale, assoluto, nessun suono, nessun contatto; solo lei, flagellata da questo momento così crudo». La relazione vissuta con il Signore, questo abbandonarsi al suo abbraccio, è motivo di speranza, che Chiara definisce «un filo sottilissimo resistente più dell’acciaio».
La preghiera, come la sofferenza, ne diventa luogo, perché realmente chi prega «non è mai totalmente solo»(Benedetto XVI, Spe Salvi). Così «anche la notte più oscura può trasformarsi in un alba di speranza» (Giovanni Paolo II, Discorso ai giovani di Roma, 2 aprile 1998). Chiara scrive: «Luminosità e dolcezza appaiono quando hai perso tutto. Ma tutto veramente. O meglio: quando lasci spazio a Lui. Ti fidi a occhi chiusi, non perché non ti restano alternative, ma perché nel rapporto che cresce con Lui lo senti, lo percepisci come Presenza reale, vivo. Lui c’è, e sta dentro di te. Quando si capisce questo, si comincia comprendere cos’è davvero la vita».
Ne emerge così una vita trasfigurata la cui luminosità diventa irradiante, per tanti che in diversi modi si sentono toccati dallo splendore che traspare nello sguardo e nelle parole di questa donna così profondamente ferita dalla vita. L’autentica preghiera cristiana infatti non isola, non separa, non aliena dalla storia, ma genera comunione, relazioni nuove. Un nuovo noi. C’è uno scritto di Chiara del 14 dicembre 2003, proprio nella memoria liturgica di S. Giovanni della Croce, in cui la sua preghiera prorompe. Lo sguardo al crocifisso conduce ad un’esperienza di amore unitivo, ad una identificazione con l’Amato: «Sto ai piedi della croce. Come Maria in quello Stabat. In quella solitudine, in quell’abisso di dolore, in quel deserto…in quel nulla…in quel silenzio/ Fino a quasi fondermi dentro la Croce. Diventare Croce. Essere Croce./Sento quelle due braccia aperte inchiodate a quel legno che mi abbracciano./ Mi fondo in quell’unico dolore. Divento dolore. Sono dolore./ Ed ecco il miracolo. Inspiegabilmente sono fuori./ Ho attraversato la croce. Sono nella resurrezione. Sono nella gioia. Piena, profonda. / Sono nella pace. Quella pace che il mondo non può dare perché non la conosce».
Una testimonianza del genere ci fa comprendere come il dolore può essere trasfigurato attraverso una fede viva che ama e che spera.
Diego Pancaldo